Parole

di Ivana De Stasi, operatrice presso la Casa delle culture a Scicli

Roma (NEV), 24 maggio 2017 – La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “lo sguardo” proviene dalla Casa delle culture di Scicli (Ragusa).

Ogni parola ha il suo significato. Il dizionario riporta gli usi che se ne possono fare, i suoi sinonimi e contrari, ma il suono di ogni parola porta e racchiude in sé una storia. Dalla storia della lingua alla storia di una nazione, di una popolazione, fino alla storia di ogni singolo essere umano che può associare un periodo della sua vita a una parola.

Ci sono parole che accomunano, parole condivise da sconosciuti che gli eventi hanno fatto incontrare per vivere un periodo che è diventato indimenticabile, nel bene e nel male. Per tutte le persone che sono arrivate e che continuano ad arrivare alla Casa delle Culture, il passaggio obbligato è stato trascorrere un periodo, breve o lungo, in Libia, punto di partenza per l’Europa. Ciò che vivono i migranti nell’ex colonia italiana è ormai tristemente noto: prigionia, violenze, torture, razzismo, fame, paura. Di quel periodo rimangono gli incubi notturni e il trauma ma anche le parole. Parole arabe, l’arabo libico. Anche a distanza di mesi e in un contesto totalmente differente, i ragazzi utilizzano questi termini. Come Lamine che chiama tutti dicendo “taal”, ovvero “vieni”, gli altri ragazzi non apprezzano perché con quel termine i libici li chiamavano minacciosamente per strada per rapirli, o anche per ucciderli, e mentre lo raccontano ripetono più volte “mushkila”, altro termine arabo che indica “problema”. “Libia mushkila”.

Ho provato a chiedere a chi vive alla Casa delle Culture se c’è una parola che può racchiudere tutta la loro esperienza migratoria: la partenza dal proprio paese, il viaggio, la Libia, il Mediterraneo, l’Italia, le proprie aspettative. Mamadou dal Gambia mi ha risposto con un disegno correlato a un testo in inglese, la sua parola è “gommone”, il mezzo di fortuna con cui è partito dalle coste libiche che poteva contenere 40, 50 persone: “ai trafficanti libici non interessa e non preoccupa far salire 120, 140 persone. Tutto per guadagnare, per il profitto.”

Eric dal Camerun, invece, è preoccupato per il suo futuro. La sua parola è “ristorante”. Vuole un lavoro ma non un lavoro qualsiasi: vuole lavorare in un ristorante. “E’ nella cucina, tra il cibo, che io mi sento realizzato. Conosco bene la cucina del mio paese, ho attraversato sei paesi africani, in Algeria ho lavorato in un ristorante di cucina locale e adesso sono in Italia. Sono pronto a creare cibo nuovo, il risultato delle mie esperienze di vita.”

“Fortuna, sì, ho scelto la parola fortuna” mi dice Khawla in un italiano sorprendente per chi vive da pochi mesi in Italia e che ha dovuto cambiare totalmente approccio linguistico provenendo dal mondo arabo. “Ho avuto fortuna in Libia perché, rispetto ad altre persone, non ho avuto grossi problemi. Ho avuto fortuna in mare perché nonostante il gommone si fosse sgonfiato e riempito di acqua, io non sono morta. Sto avendo fortuna perché sono ancora in Italia ma voglio fortuna anche per il futuro.” Ha bisogno di fortuna Khawla, perché tra pochi mesi compirà 18 anni e non si sa cosa le accadrà senza un permesso di soggiorno.

Dopo aver avuto queste risposte schiette mi sono posta anche io una domanda: con quale parola posso sintetizzare ciò che penso della migrazione, dell’esperienza che sto vivendo ogni giorno?

Le parole che mi sono venute in mente sono tante. Tempo: il tempo del viaggio, il tempo in mare, il tempo della prigionia. Attesa: l’attesa per la liberazione, l’attesa per i documenti, l’attesa per il trasferimento. Ma anche futuro: cosa riserva il futuro per tutti questi ragazzi? Cosa accadrà al compimento dei diciotto anni? Quale futuro ognuno di loro sta sognando, quale futuro sta inseguendo?

Devo però scegliere una sola parola e la mia parola è “storia”. Ogni momento passato alla Casa delle Culture è partecipazione alla storia, ascoltare i racconti dei ragazzi è osservare la storia, vedere la storia che ti passa davanti agli occhi. La storia si compie con singole scelte, singole azioni. La storia di ognuno di noi si intreccia con la grande Storia, ecco perché non si può voltare la testa da un’altra parte facendo finta che non ci riguardi. Non è la grande azione eroica che ci chiede la storia ma la storia, semplicemente, ci impone di conoscere, capire, ascoltare. Si può far finta di niente ma la storia non ci assolverà.