Assemblea KEK. Edouard Kibongui: un bagaglio di esperienza europea

Edouard Kibongui con il nuovo presidente della KEK, Christian Krieger

Novi Sad (NEV/Riforma.it), 5 giugno 2018 – Edouard Kibongui rappresentante dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia (UCEBI) è stato per due mandati, nove anni in totale, membro del Comitato direttivo della Conferenza delle chiese europee (KEK). La XV Assemblea generale della KEK, in fase di chiusura in queste ore a Novi Sad in Serbia, ha visto la nomina di un nuovo presidente, il francese Christian Krieger, e di un nuovo comitato esecutivo. L’occasione è quindi ghiotta per tracciare con Kibongui un bilancio di questi anni spesi nel board dell’associazione che unisce 120 chiese e associazioni ad esse collegate in Europa.

Come è cambiata la KEK in questi anni?

«E’ cambiata moltissimo, a partire dalla sua struttura, che oggi è più efficiente e meno elefantiaca di un tempo, con un segretario generale che rappresenta una figura centrale capace di far da raccordo fra le varie parti che compongono la KEK. Molte commissioni sono entrate a far parte della KEK, aiutando in questo modo la gestione e lo scambio di informazioni. Soltanto la CCME, la Commissione delle chiese sui migranti rimane un corpo a sé stante, per la grande mole di esperienza, di lavoro e di contatti che ha accumulato negli anni, seppur strettamente connessa alla Conferenza di cui è parte integrante, importantissima. Sono poi cambiati i temi prioritari. 9 anni fa io sono stato il primo immigrato a entrare nel board della KEK (Edouard, da 40 anni esatti in Italia, è originario della Repubblica del Congo ndr.), e il tema dei migranti e rifugiati già esisteva ma non aveva la centralità che ha oggi in cui appare la vera sfida dell’Europa e delle sue chiese in questi anni e in quelli a venire».

In questo campo forse anche la tua elezione è stata un segnale di attenzione verso un fenomeno che stava mutando.

«Direi di si, e credo che nel mio piccolo, insieme ai miei colleghi, ho contribuito a portare queste istanze con sempre maggior forza. Fino a quando poi negli ultimi anni l’emergenza è esplosa ed è sotto gli occhi di tutti, per cui è divenuta per forza la priorità del nostro operato. Ma è cambiata anche la narrazione del fenomeno migratorio nel tempo: esiste oggi maggiore consapevolezza che al di là del fondamentale aiuto umanitario, è necessario andare più a fondo, capire quali sono le cause che spingono le persone a lasciare i propri paesi di origine, per rendersi conto che spesso le cause sono legate a politiche, a scelte economiche che vengono attuate altrove, e cioè nel mondo occidentale, le cui ricadute però feriscono e colpiscono a migliaia di chilometri. Basti pensare alle industrie delle armi che sono pressoché tutte nella parte ricca del mondo, ma i cui prodotti vanno a essere tragici agenti di morte altrove».

Oggi però si assiste alla vittoria di forze populiste e al ritorno di slogan che parevano appartenere al passato. A volte le chiese paiono un po’ lontane dalla realtà, non ti pare?

«Intanto i migranti e rifugiati oggi sono due volte vittime: vittime perché devono lasciare il loro paese per cause economiche, sociali, di guerra e vittime perché dove arrivano sono considerati spesso la causa di molti mali, alimentando un populismo pericolosissimo. Le chiese dovrebbero essere più oneste con loro stesse, andare al di là dei pur nobili gesti di aiuto, per interrogare i nostri politici, le nostre società, stanare i discorsi di odio e ricordare a tutti che queste persone arrivano da nazioni che il ricco occidente ha depredato e continua a depredare. E poi le chiese non devono mai dimenticare che devono essere dalla parte degli ultimi, spendersi per loro e lottare al loro fianco».

Cosa ti rimane a livello personale di questa esperienza al vertice di un organismo di chiese così importante?

«Rimane molto, è stata esperienza molto positiva. Ho avuto modo di conoscere tantissime realtà di chiese diverse dalle nostre, conoscere altre fedi, e ciò è stato molto molto arricchente. Ad esempio conoscevo relativamente poco dell’ampio panorama ortodosso che nella Kek è molto rappresentato e devo dire che le loro tradizioni, le loro musiche sono state una scoperta che mi ha molto colpito. Porto a casa una valigia piena di cose belle da questi nove intensi anni».