Lampedusa Resiste

di Francesco Piobbichi

Roma (NEV), 17 ottobre 2018 – La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) per Mediterranean Hope (MH) – Programma rifugiati e migranti. Questa settimana lo sguardo proviene da Lampedusa

“La corda non viene. Proviamo a fare una buca lavorando di zappa e piccone”. “Niente, più scaviamo e più non viene fuori”.

Ci sconfigge, e rimane lì, legata a qualcosa di enorme. Forse a un’ancora pesantissima o forse legata a una maledizione, come quella della spada nella roccia. Decidiamo allora di non tagliarla, di lasciarla lì come monito per far vedere a tutti che se ora Cala Pisana è pulita, qualcosa sotto terra comunque rimane. A differenza della corda, però, il resto lo portiamo via, bottiglie di vetro e plastica, e tantissimi altri rifiuti che troviamo lungo la cala.

Il progetto “Lampedusa Resiste” ha iniziato proprio in questi giorni a metterci le mani, cercando di “puliziare” un’area che si vorrebbe poi piantumata, rigenerata ecologicamente e socialmente.  Il progetto ha unito il Collettivo Askavusa, il Forum Lampedusa Solidale, le Brigate della Solidarietà Attiva, Libertà Era Restare, Mediterranean Hope e qualche turista o lampedusano incuriosito.

Nel corso del progetto, abbiamo scoperto che mettere le mani tra i rifiuti di Lampedusa vuol dire frugare nella sua storia recente, trovare le coperte dei tunisini, reperti archeologici romani, i detriti delle ristrutturazioni delle case trasformate in B&B… Vuol dire anche mappare l’amianto disperso sull’isola.

In fin dei conti molti rifiuti non sono altro che oggetti messi da parte, abbandonati perché ritenuti non più utili. Abbandonati, o meglio, messi da parte erano anche i “pupi del conte”, comprati da poco dal collettivo Askavusa, che in questi giorni hanno ripreso vita venendoci a dare una mano. Sono stati protagonisti di una messa in scena del progetto di Lampedusa Resiste. Già, perché un progetto di rigenerazione eco-sociale non è semplicemente un processo che restituisce a questa comunità un’area che si vorrebbe destinare a bene comune, non è solo custodia sociale del territorio, vuol dire anche restituire in chiave moderna un racconto che si era perso, vuol dire costruire diritto alla memoria.

Scavare tra i rifiuti e il racconto dei pupi diventa quindi una metafora. Significa riprendere in mano l’arte del tramandare le storie che si è cancellata in questi decenni, vuol dire usare il dialetto locale come strumento di resistenza di fronte ai processi di massificazione.

Il racconto diventa una pratica sociale e la pratica sociale diviene racconto. Ho avuto la fortuna di presentare insieme a Giacomo Sferlazzo il progetto Lampedusa Resiste pochi giorni fa a Porto M, dove M vuol dire “Memoria, Mutualità, Mediterraneo, Migranti”.  Mentre raccontavo i “disegni dalla frontiera”, Vito ha preso la parola, e ci ha portato dentro il suo di racconto, dentro il suo dolore, dentro la sua rabbia. Vito era presente la mattina del 3 ottobre 2013 durante il terribile naufragio e quel giorno salvò decine di vite.

Nelle parole di Vito, Lampedusa si rivela essere terra potente in cui racconti e pratiche generano intrecci, costruiscono processi sociali che difficilmente in altri luoghi potrebbero prendere forma. Se quest’isola è stata utilizzata come palcoscenico per spaventare e gridare all’invasione, o come logo per vincere bandi europei, stavolta abbiamo provato tutti insieme a invertire l’intero processo partendo direttamente dall’isola.

Con progetti come Lampedusa Resiste, ci si può prendere cura di Lampedusa, custodirne la storia, rispettare il diritto della natura di esistere, e insieme a questo che altri diritti vengano tutelati. Sia che si tratti di chi su quest’isola ci vive sia che si tratti di chi quest’isola l’attraversa, il tema che questo progetto pone ci parla di concepire una solidarietà attiva che non fa distinzione tra categorie come invece ci vorrebbe imporre la frontiera che divide tra “noi” e “loro”.