Ovunque proteggiamo

Da Beirut la storia di Sophie, eritrea emigrata in Libano, che Medical Hope sta aiutando a curarsi

Disegno di Francesco Piobbichi

Beirut (NEV), 30 ottobre 2018 – A Beirut ha piovuto in questi giorni, rendendo l’aria più respirabile e bloccando per qualche ora il traffico nelle giornate pomeridiane. A Beirut ci si ammala, perché l’inquinamento è sopra i livelli di soglia, perché non esiste una politica di salute pubblica che ragiona in termini di prevenzione, non c’è controllo dell’aria e nessuno si sogna di bloccare il traffico se i livelli di inquinamento sono superati. Così i tumori crescono, ed i tumori nella loro ferocia non fanno distinzione, non hanno pietà per i bambini, non distinguono se sei ricco o povero. Ma se sei povero, migrante o profugo di guerra è tutto più difficile perché qui non esiste la sanità pubblica. I siriani hanno avuto due sfortune: la prima è quella della guerra, la seconda è quella di essere dovuti migrare in un paese che non garantisce il diritto alla cura. Si fa presto dalle tastiere di un cellulare, seduti nelle tranquille case d’occidente a dire “aiutiamoli a casa loro”, ma quando ci provi ad aiutarli a casa loro ti accorgi di essere impotente di fronte a tanta miseria. Beirut è il condensato della ricchezza più sfacciata, esibita con orgoglio, e della miseria rassegnata, silenziosa e senza speranza. In questa città se ti ammali e sei povero muori senza cure. Per questo accanto ai corridoi umanitari Mediterranean Hope ha creato un altro progetto, Medical Hope. Alcune persone siamo riuscite a portarle in Italia attraverso i corridoi umanitari per curarsi, altre sono rimaste in Libano, e qui proviamo ad aiutarle come stiamo facendo con Sophie, eritrea, emigrata in Libano per lavorare. L’abbiamo incontrata qualche mese fa in una stanza di Migrant community center (Mcc) che aiuta le donne vittime dello sfruttamento tra le mura domestiche. Sophie sapeva di avere un cancro che le cresceva dentro, ma non aveva i soldi per il ciclo di chemioterapia e i farmaci necessari a curarsi. Così, malata, era costretta a lavorare per cercare di salvarsi la vita con un salario che non le sarebbe mai bastato. Per un anno ha messo da parte i soldi e, quando ci ha raccontato la sua storia, ha tirato fuori da un piccolo portafoglio i suoi risparmi, 300 dollari. Un ciclo di chemioterapia ne costa 700, e a lei ne servirebbero, tra cicli di chemio ed operazione, 10.000.  Ecco quanto vale la vita di una persona, di una donna povera nell’oltrefrontiera. Noi cureremo Sophie con le donazioni di persone che hanno voluto dare una mano, con i nostri fondi, con quelli che raccogliamo vendendo i disegni. Noi proveremo a salvarla questa donna. Ci saranno altre Sophie ed altre storie, altri uomini, donne e bambini che ci diranno: “portateci via perché qui siamo già morti”. Alcuni verranno in Italia con i corridoi umanitari, come le 83 persone che partiranno da Beirut la notte del 31 ottobre per arrivare a Roma, altri proveremo a proteggerli qui, vicino a casa loro. Lo faremo con impegno, mentre in tanti, in troppi, continueranno a riempirsi la bocca con la frase “aiutiamoli a casa loro” che andrebbe praticata davvero.