Su Open Arms per la quinta volta

L’operatore sociale Daniele Naso di nuovo a bordo della nave di Proactiva in partenza oggi da Barcellona per le attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. In un’intervista ci spiega le ragioni del suo impegno

Roma (NEV), 15 dicembre 2018 – Open Arms è ripartita oggi dal porto di Barcellona. Nonostante le accuse e la criminalizzazione di chi fa solidarietà attivamente con le operazione di Search and Rescue in mare, questa barca, che è diventata un simbolo della resistenza di chi si oppone alla deriva umanitaria dei nostri tempi, riprende il largo per continuare la sua azione di testimonianza e soccorso.

Anche questa volta Mediterranean Hope (MH), programma rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) sarà a bordo. Daniele Naso, 31 anni, operatore sociale, partirà oggi con loro per una missione di 15 giorni, che si prolungherà quindi anche durante il giorno di Natale. È la sua quinta missione su Open Arms.

Sei alla tua quinta esperienza su Open Arms.  Cosa ti spinge a continuare a partire?

In un momento in cui le ONG vengono ostacolate nelle loro attività di solidarietà, e le politiche europee continuano a far centinaia di vittime, penso sia molto importante schierarsi e difendere chi continua, ostinatamente, a stare dalla parte della vita, le ONG e le loro operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Questo è il senso profondo del mio impegno.

Una giornata tipo sulla barca.

I tempi sono scanditi dalla mia attività, quella di cuoco. Preparo pranzo e cena per circa 20 persone. E mi organizzo per poter affrontare l’emergenza di una salvataggio; quando è in corso un’operazione di soccorso il tempo è pochissimo e le attività molto concitate. Avendo ormai imparato cerco di organizzarmi in anticipo. Poi tutti i giorni, insieme agli altri, ci si occupa della manutenzione della nave e nelle operazioni di avvistamento.

Come ti ha cambiato questa esperienza?

Direi che ha rafforzato le mie convinzioni. Vedere con i miei occhi quanti danni possano fare le politiche sulle migrazioni europee ha consolidato le mie opinioni. Ascoltare dalla voce dei protagonisti le storie di tante persone scappate dalle guerre e rimaste a lungo nei centri di detenzione in Libia cambia completamente la prospettiva con la quale si guarda al mondo e alle cose.

Nel corso delle tue missioni hai visto sempre meno navi di soccorso nel Mediterraneo. Come vedi questa nuova partenza?

Il futuro è cupo. Questa volta saremo davvero soli in mare, infatti siamo rimasti l’unica nave nell’area Search and Rescue. Partiamo senza nessuna certezza, e sappiamo che diventa sempre più difficile. Ora non dobbiamo più pensare solo al momento del soccorso ma anche a tutto quello che potrebbe succedere quando avremo caricato i naufraghi con noi; non abbiamo idea, in caso di recupero di persone in mare, di dove potremmo sbarcare.

Un volto, una storia, che hai vissuto sulla barca e che non dimenticherai.

È il viso di un bambino di nove anni che si chiamava Allah. L’abbiamo avvistato su un piccolo gommone pieno di taniche di benzina, con i suoi due fratelli maggiori e una flebo attaccata al braccio. Era notte ed erano soli in pieno mare. Cercavano di raggiungere l’Italia per poter curare la leucemia del piccolo Allah. Sono riusciti ad arrivare, ma troppo tardi. Ci è giunta in questi giorni la tristissima notizia della sua morte.