Lo sguardo di Scicli. Comprendere la violenza. Storie di ordinaria accoglienza

di Osvaldo Costantini

Scicli, Ragusa (NEV), 9 settembre 2015 – “Vorrei andare a Bari”, spiega Perfect, in un inglese ottimo. È alla Casa delle Culture–Mediterranean Hope da pochi giorni e ci spiega che, per una questione di soldi, è partita da sola con le due bambine lasciando il marito in Libia. I due erano scappati insieme dalla Nigeria, per questioni legate ai conflitti religiosi nel paese, ed avevano vissuto a Misurata per circa due anni. Perfect è preoccupata per le sorti del coniuge, ma ripete di voler andare a Bari, dove ha una zia. Lì potrà sviluppare il suo progetto di vita, non solo basato sulla ricerca di un buon lavoro, ma anche sul sogno di studiare per diventare un avvocato. In un colloquio privato, racconta che vorrebbe ottenere una vita migliore in Italia. “Cosa significa una vita migliore? Cosa è?”, le viene chiesto. La risposta è affascinante: “Una vita migliore significa vivere in un luogo dove si è liberi di poter combattere per i propri diritti”. Lezioni di democrazia.

La Casa delle culture è un luogo di transito, ed è previsto che possano rimanere più a lungo solo i minori che, avendo parenti in Italia o Europa, entrano nella parte di progetto denominata “relocation desk”, ovvero le ricollocazioni tramite ricongiungimento familiare. Perfect, avendo diciannove anni, non rientra in questo ambito: gli operatori del Centro approntano un piano di accoglienza finalizzato al trasferimento mirato verso Bari. Nel tempo che trascorre al centro, vengono elaborate delle attività per la giovane ragazza, tra le quali un supporto psicologico, curato dalla psicologa dell’equipe locale di Terre des Hommes. Il supporto si focalizza soprattutto sull’ansia per le sorti del marito e per il ricordo continuo delle violenze subite in Libia. In parallelo all’espletazione delle procedure per il trasferimento, Perfect segue il corso di italiano, anch’esso portato avanti dal personale di Terre des Hommes, affinchè il suo tempo di attesa trascorso al centro si possa trasformare in qualcosa di proficuo.

L’attesa si prolunga, anche a causa del rallentamento degli uffici pubblici durante il periodo estivo e la situazione diventa sempre più stressante per la diciannovenne nigeriana. Solo con molto lavoro da parte del personale, Perfect regge lo stress di questo limbo, solo parzialmente comprensibile, in cui le lungaggini dei procedimenti l’hanno relegata. Gli operatori lavorano per accelerare il suo caso: bisogna aprire la richiesta di asilo per permettere a Perfect di ottenere il diritto di andare in uno SPRAR. Nel frattempo, il Servizio Centrale deve individuare una struttura, nella zona di Bari, disponibile ad accoglierla. Dopo un mese lo stress è alto e Perfect non lo regge: un caldo pomeriggio siciliano ha un crollo nervoso: si incammina per le strade di Scicli, seguita da alcuni operatori che tentano di tranquillizzarla, cercando di fermare le macchine per chiedere un passaggio verso la Nigeria. I passanti, un po’ preoccupati, chiedono l’intervento delle forze dell’ordine. Viene spiegato loro che non è un caso di disordine pubblico, che la situazione è sotto controllo, senza potergli spiegare, per motivi di privacy, che è una persona vittima di violenze e che sicuramente la vista delle divise non la tranquillizzerebbe affatto. Perfect continua a fermare macchine e a ripetere alcune, poche, parole prive di senso.

Sono gli operatori che riescono a riportarla verso il centro, dopo due ore trascorse al sole, dove Perfect si abbandona in un pianto disperato nel quale, tra i singhiozzi, tira fuori di nuovo tutti gli episodi di violenza: il tentativo di stupro in Libia, l’uccisione a sangue freddo di un amico che viveva con la coppia. È lo stress che fa riemergere il vissuto cattivo che si è instillato nella sua memoria, è la logica bastarda della violenza che agisce senza possibilità di deflusso. Dopo il pianto, Perfect è più calma, le si chiede se vuole passare una notte in ospedale, per non lasciarla sola con le bambine in quello stato. Perfect accetta un ricovero volontario al reparto psichiatrico, dove possano monitorare la sua situazione, sebbene l’accordo con i medici sia quello di non medicalizzare la sofferenza di questa donna. Il giorno successivo, Perfect, non ricorda niente dell’accaduto e viene dimessa dall’ospedale psichiatrico, per tornare a parlare di nuovo con gli operatori e prendersi cura delle figlie. Chiede ancora del trasferimento che, per fortuna, arriva dopo qualche giorno, dando allo staff il tempo di effettuare un monitoraggio sul suo stato di salute mentale, attraverso delle schede appositamente approntate dalla psicologa.

L’intero staff della Casa delle Culture ne esce provato, ma allo stesso tempo rafforzato e con la consapevolezza che le vittime di violenza possono avere atteggiamenti per noi poco chiari, ma che il ruolo dell’accoglienza è anche comprendere gli effetti di quella violenza e dello stress causato dalle lunghe attese del sistema di accoglienza. Il ruolo della Casa delle Culture, ci diciamo nel corso di una riunione, è quello di mettere capo ad azioni mirate, basate sull’analisi delle specifiche vicende individuali, sul continuo interrogarsi circa il significato delle proprie e delle altrui azioni, su una comprensione a tratti necessitante di una momentanea sospensione del giudizio di valore, delle modalità con le quali le azioni del presente sono influenzate dal vissuto passato. Ancora una volta, comprendere significa agire soprattutto attraverso un approccio all’alterità che sia comprendente, riflessivo e basato su analisi che tengano conto della complessità di queste situazioni. Altrimenti è solo pietà e carità, non accoglienza.