Notti che valgono vite

di Francesco Piobbichi, operatore dell’osservatorio Mediterranean Hope a Lampedusa

Lampedusa, Agrigento (NEV), 31 agosto 2016 – Ci sono notti che partono male già dal tramonto, notti nere senza luna, con un mare all’orizzonte che sembra mangiare la speranza. Ieri era una notte di quelle, iniziata al tramonto con la notizia che da lì a poco sarebbero arrivate più di 1100 persone al Molo Favaloro. Secondo alcune voci, alla vista dell’isola di Lampedusa, le centinaia di migranti stipati nella nave rimorchio si sarebbero ribellate chiedendo di scendere in terra e di non proseguire oltre. Così ieri notte, le centinaia di persone che dovevano raggiungere Palermo sono approdate su questo scoglio, e ora sono chiuse in un centro per metà andato a fuoco e in condizioni precarie. Da Lampedusa queste persone partiranno alla svelta, già stamattina infatti abbiamo visto i primi trasferimenti, ordinati, come sempre, tra i commenti dei turisti e il trambusto dei pescherecci. Finisce così una normale serata di emergenza nel Canale di Sicilia, dove la capitaneria di porto di Lampedusa e le navi della società civile hanno salvato nel giro di pochi giorni decine di migliaia di persone. Tutto qui? No, queste sono le notizie, poi ci sono le emozioni che ti passano dentro, ed è di questo che ora vi racconterò.Questi giorni sono stati intensi, nel tempo libero che mi lasciava il lavoro di Lampedusa e dei corridoi umanitari stavo sui social media per dare una mano a chi è impegnato a portare la solidarietà attiva alle popolazioni colpite dal terremoto. Rifugiati dalle guerre o dal terremoto appartengono alla stessa umanità. La storia di ieri sera parla di tutto questo, e parte molti mesi fa, da due città oltre la frontiera, Erbil in Iraq e Melilla, pezzo di Spagna nordafricana.Lo scorso anno mentre ero in missione in Marocco per i corridoi umanitari, conobbi un ragazzo di 16 anni della Guinea, provava a saltare la rete di filo spinato che, come una cicatrice sulla terra, separa le enclavi spagnole dal resto del Marocco. Rimasi impressionato dalla sua lucidità politica, dalla sua determinazione. Mi disse che amava talmente l’Africa che era costretto a lasciarla per poi liberarla. A differenza degli altri colloqui il discorso con lui fu sul panafricanismo, sulle responsabilità del colonialismo che depredava le loro terre. Gli lasciai il mio nome, e poco dopo, Malcolm X Kita mi chiese l’amicizia su Facebook. La settimana scorsa mi aveva scritto dicendomi di avere raggiunto Tripoli e che a breve sarebbe partito per l’Italia. Gli avevo risposto di non farlo, che era pericoloso, e la sua risposta è stata “Inshallah”.Ad Erbil invece, ieri notte partiva una famiglia siriana con un visto umanitario per l’Italia. Padre madre e due bambini, una dei quali, la più grande di 4 anni, gravemente malata e bisognosa di cure che per mesi abbiamo seguito, tra visti e lungaggini burocratiche.Stavo pensando a loro, a Erbil, a Kita, mentre distribuivo acqua e succhi di frutta al Molo Favaloro, quando ho sentito qualcuno pronunciare il mio nome: “Francesco”, con questo nome, non mi chiama nemmeno più mia madre. Eppure il suono, quasi sottovoce, arrivava da dentro quella fila di piedi scalzi che stavano sul molo. Era lui? Era Kita, che mi aveva riconosciuto e mi chiamava? Non può essere così pazzo questo mondo da rendere vere storie come queste, ho pensato. Ho lasciato cadere la bottiglia e mi sono buttato in mezzo alla mischia come quando il Perugia (la mia squadra) segna un goal in curva nord. Un viso sorridente mi ha dato la conferma che era tutto vero, ci siamo guardati e poi abbracciati. L’ho stretto come un fratello, è stato come abbracciare una spugna tanto era bagnato dall’acqua del mare. Vivo, è vivo, ho pensato tra me e me. Frontiera, attraversarla, viverla. Ci siamo lasciati ridendo, ora Kita è nell’Hotspot, e spero di poterlo salutare di nuovo prima che riparta per la terra ferma.Ne accadono di cose in queste notti senza luna, come Silvia che ieri notte è riuscita a far ridere 400 migranti sfiniti dal viaggio ballando sul molo. Sembrerebbe un miracolo, invece sono semplicemente le nostre azioni che illuminano il mondo che verrà, magari piccole ma che servono da esempio come quella dei corridoi umanitari. La famiglia siriana è arrivata stamattina sana e salva all’aeroporto di Fiumicino, senza affidarsi ai trafficanti: si ricorderà per tutta la vita questa notte, come Kita, e come tutti noi.