Il fiume in piena dell’accoglienza

di Marta Bernardini, operatrice di Mediterranean Hope

Roma (NEV), 11 luglio 2017 – La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “lo sguardo” arriva dal Sinodo della Chiesa unita di Cristo negli Stati Uniti

Usciamo dall’enorme edificio del Convention Center di Baltimora, Maryland (USA), e un’ondata di calore ci invade. Tra l’aria condizionata interna e i 40° esterni ce ne saranno almeno 15 di differenza. Ma questo non ferma noi e le altre 300 persone radunate e pronte per la marcia indetta per oggi, 3 luglio 2017, in supporto delle famiglie di immigrati che negli Stati Uniti vengono separate e alcuni dei loro membri imprigionati e deportati.

Siamo al Sinodo generale (30 giugno-4 luglio) della Chiesa Unita di Cristo (UCC), una delle chiese più progressiste negli Stati Uniti nonché partner internazionale della Chiesa valdese e del progetto Mediterranean Hope della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questo è il motivo per cui mi trovo qui, per rappresentare l’Italia e il lavoro che le chiese protestanti stanno facendo con i migranti. È interessante vedere quanto grande sia questo Sinodo, parliamo di migliaia di persone provenienti da tutti gli Stati Uniti, per votare, partecipare, dare linfa a questa chiesa vitale e dinamica. La UCC ha un forte slancio sociale, porta avanti battaglie per i pari diritti di tutti, bianchi e neri per esempio aderendo al movimento Black Lives Matter, persone di diverso orientamento sessuale e genere, gruppi nativi che resistono nelle loro terre, meglio definite riserve, e tante altre battaglie. Una delle persone più conosciute a questo sinodo è la pastora Traci Blackmon, una donna afroamericana, figura chiave della battaglia, ancora viva e necessaria, per il riconoscimento dei diritti dei neri negli USA. Dall’enorme palco, il primo giorno, fa una predicazione entusiasmante; voce incalzante e migliaia di applausi. È la stessa che durante la manifestazione del 3 luglio, quando la marcia si ferma davanti all’edificio federale dell’ICE (Immigration Customs Enforcment) dice: “Se non fossimo qui oggi a manifestare per tutte le famiglie che vengono separate, per le ingiustizie che vediamo perpetrate, non potremmo definirci una chiesa che porta avanti il messaggio dell’evangelo”.

L’emozione è forte e il caldo torrido non ci fa desistere. A parlare, con voce tremante ma allo stesso tempo decisa è una delle figlie di Gulliermo Morales, un artigiano proveniente dal Salvador, in attesa dell’asilo, negli USA da 10 anni insieme alla sua famiglia. Morales è stato arrestato dall’ICE, davanti a casa sua, lo scorso aprile senza aver mai avuto accuse o azioni criminali a lui imputate. Siamo qui oggi per lui e contro l’irrigidimento delle politiche sull’immigrazione che sta avvenendo con la presidenza di Donald Trump, come l’aumento della militarizzazione alla frontiera, il moltiplicarsi dei centri di detenzione e delle deportazioni.

Ma questa chiesa è in prima linea da anni. Sono almeno 15 anni, per esempio, che la UCC si trova sui confini degli Stati Uniti sia a nord, verso il Canada, sia a sud, verso il Messico e che offre aiuto a quanti rischiano la vita cercando di passare il confine. È una chiesa che si sta mobilitando contro le deportazioni, offendo assistenza, ma anche rifugi sicuri aderendo al movimento delle chiese-asilo, le cosiddette Sanctuary churches.

Mentre il sole picchia e le persone si alternano a parlare, penso a quanto i nostri confini siano tristemente simili, quanto il deserto e il mar Mediterraneo siano stati trasformati in armi di morte e disumanizzazione. Penso a quante altre marce dovremo fare, a quanto ci continueremo a indignare, ma penso anche che come cristiani, come attivisti, come liberi cittadini, non ci vogliamo arrendere davanti alle ingiustizie che vediamo e di cui il nostro stile di vita e le nostre scelte sono anche causa. Siamo lì dove si sta scomodi, cercando di accogliere gli ultimi e di stare al posto giusto nel momento giusto.

Il Sinodo generale della UCC ha approvato una mozione molto importante in questi giorni, che dichiara la UCC una Immigrant Welcoming Church, “una chiesa accogliente per gli immigrati, con l’obiettivo di fare anche un lavoro di pressione politica” spiega il pastore Randy Mayer da anni impegnato per i diritti dei migranti, in prima linea sul confine USA/Messico e tra i promotori della mozione. Lo slancio verso la giustizia sociale di questa chiesa, il riconoscimento del lavoro di Mediterranean Hope oltre oceano, le battaglie comuni, ci fanno sentire un po’ meno soli in un momento storico di forti cambiamenti globali, di spostamenti di persone, di perpetrazioni di ingiustizie, violazioni e violenze.

“There is a river whose streams make glad the city of God – C’è un fiume i cui ruscelli rallegrano la città di Dio”, recita il salmo 46:4 che accompagna questo Sinodo.

I ruscelli che scorrono siamo noi, acque che non si fermano, che strabordano, che confluiscono, che cambiano forma, che sono spinte da una forza più grande, un fiume in piena, e che cercano di andare, nelle loro differenze e somiglianze, in una direzione comune.