Donne e ministeri nelle chiese della Riforma

“Con il loro modo «altro» di entrare nelle Scritture, le donne possono aiutare a restituire alla Parola quella complessità per troppo tempo negata da letture univoche al maschile. Probabilmente, proprio da questo recupero della complessità potranno scaturire nuovi modi di vivere e proclamare la Parola. Il cantiere, dunque, è aperto”. Riproponiamo l’articolo a firma di Lidia Maggi per Riforma.it

Roma (NEV/Riforma.it), 25 marzo 2018 – Quale è il contributo delle pastore e delle diacone nelle chiese della Riforma? Come la loro presenza interroga la società italiana e le altre tradizioni cristiane? È di questo che abbiamo discusso, a Bologna, il 7 marzo, in un seminario organizzato nell’ambito della conferenza internazionale dell’European Academy of Religion (EuAR), una piattaforma di dialogo e confronto accademico che mette in rete diversi soggetti che, a titoli differenti, si occupano di tematiche religiose. È significativo che la prima conferenza internazionale si sia tenuta proprio in una nazione come l’Italia che, sul versante della pluralità religiosa, fatica a esprimere sguardi dialettici e liberanti.

In questo contesto, il Coordinamento delle teologhe in Italia ha scelto di partecipare gestendo uno dei momenti seminariali (panel) dal titolo: “Le donne nei ministeri delle chiese”. Partendo dal vissuto di pastore e diacone, in Italia, la riflessione ha provato a tracciare bilanci e prospettive. Elizabeth Green e Letizia Tomassone, da sempre impegnate sia sul fronte accademico sia su quello pastorale, hanno coordinato il progetto che, come tappa conclusiva, porterà alla pubblicazione di un libro sul pastorato femminile in Italia. Un saggio che proverà a rileggere da angolature differenti l’esperienza delle donne pastore: dalla predicazione all’amministrazione dei sacramenti, dalle relazioni di cura al rapporto con le istituzioni, dalla lettura del testo biblico al dialogo con le altre realtà cristiane, in Italia e nel mondo. La posta in gioco non è solo quella di strappare la storia delle donne dall’oblio, raccontando il pastorato e il diaconato femminile; insieme, si vuole verificare se la leadership delle donne sia effettivamente riuscita a far uscire le chiese dalla cattività del patriarcato, costruendo comunità più inclusive e meno gerarchiche.

Il seminario di Bologna è stata l’occasione per provare a fare un bilancio e tracciare nuove prospettive. In apertura Letizia Tomassone ha ripercorso la storia delle donne pastore in Italia, a partire dalla prima consacrazione. Era il 1967. Il vecchio diritto di famiglia imponeva alle donne sposate di seguire il proprio marito. Il riconoscimento del pastorato femminile, con donne che si spostano su chiamata della chiesa e non al seguito dei mariti, di fatto, ha portato ad anticipare anche quei cambiamenti sociali che avrebbero restituito alle donne i diritti negati.

Precedentemente, in tempi di assenza del pastorato femminile, le donne hanno trovato uno spazio per vivere la propria chiamata nella veste di mogli di pastori. Figure che nascono con la Riforma, la quale abolisce il celibato per il ministro della Parola. In questo contesto, fin dagli albori, le donne rivendicano e difendono una condivisione di ministero nel matrimonio e nella chiesa. Un protagonismo femminile che, nel corso del tempo, porterà a ingabbiare tale vocazione in un ruolo ben definito, quello appunto delle mogli di pastore. I cambiamenti sociali e il pastorato femminile produrranno il dissolvimento di tale ruolo, anche se rimangono alcune resistenze legate a un nostalgico immaginario patriarcale riguardo le famiglie dei pastori (maschi). Non aiuta, certo, l’oblio di una storia femminile complessa, non tracciata su un unico modello, quello ausiliario della moglie di pastore, di cui Katharina Von Bora (moglie del riformatore tedesco Martin Lutero) rappresenta l’archetipo.

Le pastore predicano, studiano e spiegano le Scritture. Dopo una prima stagione di scoperta del testo biblico, ci siamo interrogate sul cambiato di rapporto con la Parola di fronte ai mutamenti sociali. Chi scrive ha proposto una riflessione a partire dalla “crisi della parola” nell’era della comunicazione globale. In questo contesto, l’incapacità di ascolto si ripercuote su un ministero, come quello pastorale, fortemente centrato sulla Parola. Affrontiamo una perdita di autorevolezza nella proclamazione della Parola, che non nasce solo dall’ancestrale fatica del patriarcato, ma attraversa, indistintamente, uomini e donne nelle chiese. Insieme alla perdita di autorevolezza, il nostro presente si caratterizza per la crisi dell’esperienza comunitaria. Il cambiamento di scenario sollecita anche le pastore a ripensare gli spazi di aggregazione e di proclamazione della Parola. Ovvero, siamo sollecitate a ripensare il ministero. Tuttavia, le donne, abituate da sempre ad agire in contesti difficili e di marginalità, sembrano più preparate a ricercare nella crisi luoghi e modalità inediti per ridare voce a quella Parola liberante. Con il loro modo “altro” di entrare nelle Scritture, possono aiutare a restituire alla Parola quella complessità per troppo tempo negata da letture univoche al maschile. Probabilmente, proprio da questo recupero della complessità potranno scaturire nuovi modi di vivere e proclamare la Parola. Il cantiere, dunque, è aperto.

Una medesima dinamica è emersa anche a proposito dell’amministrazione dei sacramenti, oggetto di indagine di Elizabeth Green, per la quale il contributo delle donne sta nella capacità di mantenere unito ciò che il patriarcato aveva separato, ovvero corpo e parola. Le donne, che generano vita e la nutrono, richiamano le chiese, che celebrano il battesimo e la cena del Signore, a non spostare solo su un piano simbolico l’atto generativo della “nuova nascita” e quello di cura e nutrimento significato dal pane spezzato.

Accanto al ministero pastorale delle donne, nelle chiese riformate, c’è quello diaconale. Ne abbiamo discusso, guidate dalla diacona Alessandra Trotta. Nel protestantesimo, il diaconato è un ministero diverso da quello cattolico, e non solo perché riguarda uomini e donne. Si tratta di una vocazione che si pone «sulla soglia della Chiesa, tenendo la porta aperta nei due sensi», per non perdere i contatti con il mondo. Un servizio concreto, che richiede competenze professionali (infermiere, psicologhe, assistenti sociali, ma anche commercialiste). Qui l’ambiguità è segnata dalla fatica di poter esprimere lo specifico cristiano di tale vocazione e non confonderla con quella di qualsiasi altro professionista.

Affascinante è stato il percorso storico tracciato per mostrare come il diaconato femminile, scomparso già nei primi secoli, sia riemerso: dalle beghine alle diaconesse riformate. Donne celibi, che vivono insieme per offrire servizi ai più deboli. Un ministero ecclesiale, ma non ecclesiastico.

Il dibattito finale, introdotto dalle conclusioni di Cristina Simonelli, ha evidenziato come la riflessione sui ministeri ordinati delle donne non riguarda solo il mondo femminile, ma la vita dell’intera chiesa. Le donne sono voce profetica, che richiama le chiese a riscoprire la complessità, a evitare semplificazioni e facili omologazioni, così da divenire comunità accoglienti, plurali, democratiche. Corpo vivo di una fede che possa rendere ragione di quel Dio che chiama ognuna e ognuno al servizio di tutti.