A bordo della Open Arms, ai tempi di “mare mostrum”

Barcellona, 19 settembre 2018. Paolo Naso (a destra) a bordo del rimorchiatore Open Arms

Roma (NEV), 20 settembre 2018 – Il ministro Salvini ha vinto la sua battaglia personale contro le ONG e ora Open Arms, il rimorchiatore che insieme al veliero Astral in cinque anni ha salvato oltre sessantamila persone nel Mediterraneo, è fermo nel porto di Barcellona. Con la sua stazza da rimorchiatore è lì da oltre un mese, in mezzo a yacht miliardari e in prossimità di gigantesche navi da crociera. Raggiungerlo non è difficile perché in Catalogna la Open Arms, così come la ONG che le gestisce – Proactiva –, è un motivo di vanto per tanta parte della popolazione. E sono i poliziotti i primi a indicarti il molo dove è ormeggiato, con precisione e gentilezza. Anabel Montes, “capo” di tante missioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale, ci aspetta e ci accoglie con il suo sorriso ottimista e con i suoi capelli azzurri che abbiamo visto in tanti servizi televisivi.

Appena a bordo ci spiega che siamo saliti sulla nave attraverso il passaggio stretto dal quale vengono issati a bordo i naufraghi e ci mostra subito il corridoio dove vengono messi in fila: uomini da una parte, donne e bambini dall’altra,  “perché, dopo il trauma della navigazione e del rischio di naufragio, che si aggiungono alle tragedie accumulate nei mesi o agli anni trascorsi in vista dell’imbarco, hanno bisogno di un’area protetta, di uno spazio ‘sacro’ nel quale ritrovarsi e riprendersi – spiega Montes – Le donne e i bambini sono quelli più vicini alle docce, necessarie per togliersi dal corpo la miscela di acqua salata e gasolio che hanno sulla pelle, una patina untuosa e ustionante che in qualche caso ha lasciato segni che resteranno per tutta la vita”.

Ed ecco la sala riunioni, che è anche refettorio dove per il pasto si alternano due turni. Una finestra collega con una minuscola cucina elettrica: “Le piastre sono lentissime, ma poi funziona benissimo”. Ed è proprio come cuoco che un volontario di Mediterranean Hope, il programma rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), ha prestato servizio in alcune missioni. La visita continua con l’infermeria, ben attrezzata per piccoli interventi, sempre presidiata da un medico, e poi la cabina di pilotaggio, “l’angolo più bello della nave”, ci dice Marco Martinez, il capitano in questo momento al comando.

Ci abbraccia e ci bacia come se fossimo amici da sempre e poi accende un monitor: “tra poco saremo operativi in questa zona” – spiega mostrando con entusiasmo l’area marittima di prossimità tra la Spagna e il Marocco”. È il frutto di un accordo con il governo spagnolo che ha deciso d avvalersi dell’esperienza di questa ONG nata in Spagna per le azioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo occidentale. “Migranti subsahariani – spiega Marco – che partono dal Marocco, con mezzi di ogni tipo. Sono migliaia ma è difficile immaginare numeri precisi perché tutto dipende dalla situazione che si determinerà in Marocco”. Del resto lo abbiamo imparato: i flussi non si fermano, cambiano traiettoria e mete finali, ma non possono fermarsi: troppo forti i fattori che spingono migliaia di persone a rischiare la vita per sfuggire agli aguzzini libici o ai miliziani siriani.

Nelle parole di Marco risuona l’entusiasmo di una nuova missione per un equipaggio che in questi anni ha accumulato una grande professionalità nell’azione di salvataggio in mare. Entusiasmo e professionalità che è difficile contenere. Come quello di Frances, uno dei macchinisti che ci guida nella “pancia profonda” della nave, dove gira un motore da 4.000 cavalli. Orgoglioso ci mostra pompe e giunti, tutti in perfetta efficienza “perché uno di noi sta sempre qui, a controllare manometri e condutture, 24 ore al giorno”. All’improvviso ci sorprende un disegno di Francesco Piobbichi, che campeggia proprio su un corridoio che porta alla sala macchine. Francesco è un operatore storico di MH e il suo disegno – due mani che sollevano una barca e la salvano dal mare in tempesta – è diventato l’icona dei corridoi umanitari. La stessa immagine, non senza suscitare polemiche, è stata pubblicata dal capitano del pattugliatore della Guardia costiera Diciotti sul suo profilo facebook.

disegno di Francesco Piobbichi

Le squadre dei macchinisti sono due e si alternano per periodi di 30 giorni, un team affiatato che ha fatto del salvataggio in mare il suo lavoro e la sua vocazione.

Ma chi li paga? Quale mano investe migliaia di euro per far vivere questo equipaggio e i suoi mezzi navali? La finanza ebraica? Soros? Oscure potenze straniere? Chi fa queste domande e tenta risposte ideologiche non si prende la briga di verificare come funziona il crowdfunding di Proactiva: campagne di massa alle quali aderiscono migliaia di persone, sindacati, comuni, chiese. E tra queste anche le chiese evangeliche italiane, e non solo. Così come quelle tedesche sostengono le missioni della nave Aquarius. E poi ci sono i volontari: studenti, impiegati, professionisti che rinunciano a ferie e permessi per fare qualcosa di utile. Per gli altri, ma probabilmente anche per se stessi.

Mentre visito la Open Arms e il suo equipaggio, a Roma il capitano Riccardo Gatti spiega in una conferenza stampa perché la nave non opererà più nel Mediterraneo centrale. Ha vinto Salvini, la linea dura del “mare mostrum” che deve fare da barriera e scoraggiare partenze e sbarchi. E poco male se, a fronte di partenze dalla Libia in crollo verticale, nei primi sette mesi del 2018 sono morte oltre 1600 persone: tutto ha un prezzo, facciamocene una ragione.

Ma questi di Proactiva sono tosti e, nonostante abbiano subito porti chiusi, indagini giudiziarie pretestuose quanto inconcludenti, insulti gratuiti come quello di “colludere con i trafficanti”, hanno deciso di andare avanti. Tra qualche giorno il veliero Astral ripartirà dalla Spagna verso il Mediterraneo centrale, con compiti primari di  osservazione e monitoraggio della situazione, dei flussi e del rispetto delle norme europee e internazionali in materia di salvataggio in mare e di tutela dei diritti di migranti e richiedenti asilo: gli “schiavi” come è scappato di dire a Salvini che, per una volta, ha involontariamente ammesso che nell’inferno di una Libia in fiamme ci sono vittime sfruttate e annientate nei loro diritti fondamentali.

La Federazione delle chiese evangeliche continua a sostenere chi, in un clima sempre più difficile, osserverà e racconterà quello che altri vorrebbero occultare. Testimoni scomodi, perfino impopolari. Ma che Dio li aiuti!