“Tajara”, l’aereo in arabo siriano

Roma (NEV), 17 aprile 2019 – La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene dalla Casa delle Culture di Scicli ed è il frutto di una serie di conversazioni tra Fatima e gli operatori Mauro Covato e Ivana De Stasi.

“Tajara” è la traduzione di “aereo” in arabo siriano. Non ero mai salita su un aereo prima di partire per Roma: un volo di due ore che da Beirut ha condotto me, mia madre e i miei due fratelli in Italia tramite i corridoi umanitari. Gli aerei che ero abituata a vedere prima erano molto diversi e non trasportavano persone e sogni bensì bombe. Li ho visti per la prima volta nel 2011, sorvolavano la mia città. Idlib è una piccola città siriana immersa nella campagna, la circondano distese di campi con alberi di ulivo, melograno e fichi che pensavo fossero esclusivi della mia regione e invece poi, con grande stupore, ne ho scoperto l’esistenza anche a Scicli, dove vivo da alcuni mesi presso la Casa delle Culture.
Gli aerei del terrore hanno distrutto Idlib, “la città verde”, la guerra l’ha distrutta così come ha distrutto la nostra vita. I nostri alberi, le nostre case, le nostre famiglie non esistono più. Non esiste più mio padre, sequestrato dall’esercito di Bashar e mai più tornato. Non esiste più la mia infanzia e quella dei miei fratelli portata via dalle bombe sganciate dagli aerei.
Una notte di giugno eravamo in pieno Ramadan e faceva caldissimo, una serie di bombe, non ricordo quante ma sicuramente troppe, una dopo l’altra senza sosta, continuavano a cadere. Sarà successo tutto in una manciata di secondi, secondi per me dilatati dal terrore. Siamo usciti fuori casa per paura di un crollo imminente dell’edificio. Mia madre ha portato con sé mio fratello, io mio fratello più piccolo, mio zio la sua famiglia. Solo dopo ci siamo accorti che nonna era stata ferita dalla “pioggia di ferro”: chiamavamo così le schegge provocate dall’esplosione delle bombe.
Erano piccole ma pericolosissime e spesso letali. Mio zio, impegnato a proteggere i bambini, mi dice di usare un coltello per togliere le schegge dal corpo di mia nonna. Per fortuna le erano entrate solo nel braccio.
Ciò che più ci mancava durante la guerra era l’ovvietà della quotidianità. Tutto era complicato: procurarsi il cibo e l’acqua era un grande problema, persino andare in bagno era rischioso perché non sapevi mai chi potesse nascondersi dietro i cespugli. Camminare per strada era il pericolo più grande e non solo per i cecchini ma anche a causa dei militari e dei ribelli che ti fermavano per chiederti da che parte stessi, con i ribelli o con Bashar. Qualsiasi risposta davi era una condanna a morte.
Sul finire del 2013 mia madre decise che bisognava tentare in qualsiasi modo di salvare l’unica cosa rimastaci, la nostra vita. Attraversiamo illegalmente il confine con il Libano percorrendo anche lunghi tragitti a piedi. Ricordo che correvamo senza mai voltarci indietro riponendo tutte le speranze nell’arrivo in Libano. Abbiamo vissuto per quasi cinque anni in un campo profughi nel nord del paese. Sono stati anni molto difficili vissuti nell’illegalità e con la difficoltà nel trovare cure mediche per la malattia dei miei fratelli. In Libano abbiamo conosciuto persone che si sono interessate ai problemi della nostra famiglia e ci hanno prospettato l’idea di raggiungere l’Italia per curare i miei fratelli. Nonostante l’immensa paura di abbandonare nuovamente un luogo a noi caro, abbiamo deciso di partire. Siamo così arrivati in Italia il 31 giugno 2018.
L’aereo che prima era il terrore, con il viaggio in Italia grazie ai CU, è diventato il simbolo della nostra salvezza ma anche dell’inizio di una nuova vita. La guerra mi ha portato via la casa, mio padre e la mia infanzia però, inaspettatamente, c’è stato un risvolto positivo: ho scoperto l’esistenza di paesi diversi dal mio, ho conosciuto tante persone, i miei fratelli seguono cure regolari all’ospedale di Ragusa. Così come lo stupore nell’aver ritrovato gli alberi che circondavano Idlib, a Scicli lo stupore nei miei occhi, si è presentato più volte: sto frequentando la scuola per la prima volta e ho scoperto che amo studiare le lingue e la matematica, posso passeggiare per le vie di Scicli da sola senza che nessuno mi chieda da che parte sto. Posso bere un caffè al bar sentendomi libera di farlo tutte le volte che voglio, semplicemente perché posso.

Storia raccontata da Fatima, in collaborazione con gli operatori Mauro Covato e Ivana De Stasi.