Essere chiesa di frontiera

Roma (NEV), 10 maggio 2019 – La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” è un estratto dell’intervento dell’operatrice Marta Bernardini a Valpespiritualità 2019, a Torre Pellice, lo scorso giovedì 9 maggio.

Oggi sono qui per raccontarvi l’esperienza che ho fatto negli ultimi anni come operatrice del progetto Mediterranean Hope della Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Vorrei raccontandovi una storia, che si svolge sul piccolo molo Favaloro di Lampedusa, a metà maggio del 2014.

Da qualche giorno io e il mio collega Francesco Piobbichi ci siamo trasferiti a Lampedusa, uno scoglio di 20km2 nel cuore del Mediterraneo. Non ci conoscevamo prima, abbiamo storie diverse che ci portano su quella zattera rocciosa. Io ho 26 anni e ho sempre vissuto in città più o meno grandi, mai in una piccola isola, così tanto a sud, con così tanto mare intorno. A Lampedusa non conosciamo ancora praticamente nessuno. Ma il primo amico sincero diventa immediatamente il parroco di Lampedusa, allora don Mimmo Zambito. Don Mimmo un giorno ci chiama e ci dice che al molo Favaloro c’è uno sbarco e di farci trovare davanti al cancello che ne delimita l’area. Mentre lo aspettiamo mettiamo gli occhi sul grosso cartello giallo “Area militare divieto di accesso”. Don Mimmo arriva a passo serrato, ci fa cenno di seguirlo e con lo stesso passo deciso tutti e tre attraversiamo quel cancello. Le forze dell’ordine all’interno lo salutano e poi, accorgendosi di noi, gli chiedono “Ma don, chi sono queste persone?”, e lui, con aria fintamente leggera: “Ah no, loro sono delle chiese protestanti, sono con me”. Ed ecco che nel sistema italiano fatto di zone grigie e sfumature, basta una frase del “parrino”, il fratello don Mimmo, a legittimare la nostra presenza.

A quel punto davanti a noi vediamo un gruppo nutrito di profughi, tutti maschi e subsahariani, che scendono da una motovedetta della Guardia Costiera per mettere i piedi scalzi sul molo assolato e cocente, vistosamente stremati.

Il mio ricordo vivido di quel momento, il primo sbarco, sono i piedi nudi, mal ridotti, che si appoggiano sul terreno ruvido e bollente del molo. Il tempo si ferma, mi sembra di trattenere il respiro. E poi in un attimo io e Francesco ci troviamo a scavare convulsamente in uno scatolone pieno di scarpe che avevamo portato con noi. “Che numero avrà quello seduto? E quello alla sua destra che sembra un bambino già adulto? Ma perché queste scarpe sono tutte spaiate?”. E mentre siamo ricurvi su quello scatolone e ci affanniamo a cercare scarpe e a porgerle nessuno sembra interessato a quello che stiamo facendo. Vediamo invece che alcuni si avvicinano a don Mimmo che poi ci fa gesto di raggiungerlo. Don Mimmo ci guarda e ci dice: “Solo due cose mi continuano a chiedere, un telefono per chiamare a casa, e se possiamo pregare insieme”.

Quello è stato il mio inizio. Quando la FCEI mi chiese di iniziare questa avventura a Lampedusa ci ho messo una settimana intera per decidere. Io, giovane attivista valdese, allora già vicesegretaria della Federazione giovanile Evangelica in Italia da più di 3 anni, nata a Milano, poi studentessa a Bologna, sempre vissuta nelle comodità della città potevo sostenere un tale cambiamento? Ma sentii subito che quella richiesta di andare a Lampedusa era una chiamata e io alle chiamate della mia chiesa ho sempre cercato di rispondere.

Lo spaesamento e la scomodità sono stati sentimenti che hanno iniziato ad accompagnare la mia esperienza a Lampedusa. Disagi dell’isola e del lavoro di frontiera ma costruzione di una risposta comunitaria di solidarietà. Da quella esperienza ho iniziato a capire veramente il significato di stare sulla frontiera. Come ti cambia, come ti rimane addosso, che dinamiche di resilienza si innescano. E poi ne ho capito ancora di più il significato quando ho vissuto e lavorato per 4 mesi in Arizona al confine con il Messico. Con una chiesa della United Church of Christ facevo azioni di supporto e assistenza ai migranti che passavano il confine. Migliaia di chilometri, altri confini, muri e deserto invece che mare, ma stesse dinamiche. E lì ho imparato il concetto di borderland, terra di frontiera.

Allora ho iniziato a pensare a noi, alle nostre chiese attraverso il lavoro a Lampedusa e in altri luoghi “caldi”, come chiesa di frontiera, borderchurch.

Noi siamo una chiesa di frontiera. Noi siamo sulla frontiera di Lampedusa, nei campi profughi in Libano dai quali abbiamo dato vita ai Corridoi umanitari, siamo nella casa di accoglienza a Scicli, luogo sicuro per donne, minori e famiglie e siamo nel Mediterraneo con le ONG che sono sotto attacco.

Cosa significa, per me, essere una chiesa di frontiera? Significa stare scomodi, saper ancora stare ai margini. Gesù ci insegna a stare nei posti più scomodi, quelli che non capiamo, in cui ci sentiamo disorientati, appunto stranieri.