#Cannes2019 “Uberizzazione”, violenza, sangue e guarigione

Intervista a Lucia Cuocci, componente protestante della giuria ecumenica, appena rientrata dal 72° Festival del cinema

Un frame dal film di Pedro Almodovar “Dolor y Gloria” interpretato da Antonio Banderas

Roma (NEV), 28 maggio 2019 – La giuria ecumenica presente al 72° festival del cinema ha premiato “A Hidden life” del regista statunitense Terrence Malick. Fra i componenti della giuria, nominata dalle associazioni cinematografiche INTERFILM e SIGNIS, rispettivamente protestante e cattolica, anche la giornalista Lucia Cuocci, collaboratrice di diverse testate fra cui Protestantesimo/RaiDUE. Raggiunta dall’Agenzia NEV al suo ritorno da Cannes, ne proponiamo un’intervista.

In che modo lavora una giuria ecumenica?

Lucia Cuocci, Cannes 2019

La nostra giuria ecumenica era composta da una suora paolina americana Rose Pacatte, dal pastore protestante francese Roland Kaufmann, presidente di giuria, da due giornalisti cattolici Xavier Accart e Stefan Förner, dal critico cinematografico greco Konstantin Terzis e da me.  Il lavoro di selezione deve rispondere a determinati criteri; oltre all’alta qualità del film, i film devono in qualche modo rappresentare dei valori cristiani, una forma di speranza e di sfida. Noi abbiamo visto i 22 film in concorso e ogni due o tre giorni ci riunivamo per discuterne insieme. Come indicato da INTERFILM e SIGNIS, i criteri prendono in considerazione film che riflettono la profondità dell’anima, la complessità del mondo, la giustizia, la dignità umana, il rispetto per l’ambiente, la pace, la solidarietà e la riconciliazione, valori evangelici ampiamente condivisi in tutte le culture. Dopo aver valutato, abbiamo selezionato per il premio ecumenico “A Hidden life” di Terrence Malick.

Del film vincitore e delle motivazioni del premio abbiamo già parlato qui. Cosa ci racconta degli altri film?

La giuria ecumenica al 72° Festival di Cannes – maggio 2019

Il livello qualitativo è stato altissimo, soprattutto perché c’erano diverse opere prime di registi anche piuttosto giovani. Esprimo un parere personale, per me è scontato che i film di Ken Loach “Sorry We Missed You” e di Pedro Almodovar “Dolor y Gloria” sono dei veri capolavori che si distaccano dai soliti cliché. Poi c’erano tante cose nuove come “Les Misérables” di Ladj Ly che ha vinto il premio della giuria, sul tema delle banlieue parigine. Ne emerge un confronto violento fra poliziotti e ragazzi della banlieue dal quale si capisce che miserabili siamo tutti; il film si conclude con la frase di Victor Hugo, a cui il film è ispirato, “Non ci sono né cattive erbe né uomini cattivi. Ci sono solo cattivi coltivatori”. Il filo che lega questi film è il disagio sociale, oltre a una riflessione importante sulla morte e sull’aldilà, alla fragilità dei tempi che viviamo. Questa morte era rappresentata da figure mostruose, come per esempio gli zombie nel film che ha aperto il Festival “The Dead Do not Die”, la morte non muore, del regista Jim Jarmusch.

Che quadro emerge, dalla settima arte, rispetto alle società moderne?

Emergono secondo me l’incertezza, la sofferenza, la fragilità umana. Penso al film di Ken Loach, che ha centrato perfettamente il momento in cui viviamo, parlando di questa uberizzazione del lavoro per cui alle persone vengono proposti dei lavori in cui sembra che tu sia autonomo invece sei uno schiavo. Parliamo quindi di mancanza di diritti, di paure, di disuguaglianza sociale. Il film “Parasite” del coreano Bong Joon-ho che ha vinto, meritatamente, la Palma d’oro è un film che fornisce un quadro delle fratture, delle diversità delle classi sociali che ci sono e che alla fine, metaforicamente e non, vengono distrutte con violenze e omicidi. Uno dei tratti di molti film era appunto la violenza. Il sangue. Un altro filone, e penso per esempio ai fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, premiati per la migliore regia per “Le Jeune Ahmed”, è quello del fondamentalismo. Il film parla di un adolescente indottrinato nell’islam più fondamentalista che tenta di uccidere la sua insegnante, a dimostrazione di quanto l’indottrinamento possa essere potente. Nella sezione Un certain regard emergono le donne, penso a “Papicha”, di Mounia Meddour, o a “The Swallows of Kabul”, di Zabou Breitman & Eléa Gobé Mévellec, un fumetto in cui le donne si ribellano al fondamentalismo islamico.

Ci sono note di speranza?

…Forse nel film di Almodovar. Il personaggio interpretato da Antonio Banderas, Salvador Mallo, è un regista pieno di dolori interni, profondi, che poi si esprimono in dolori fisici. Alter ego dello stesso Almodovar, in qualche modo Salvador cerca di salvarsi, di guarire il dolore, di alleviarlo. E ci riesce quando si riconcilia con la sua storia, con la sua infanzia, con il fantasma di sua madre e con un antico amore che si era bruscamente interrotto.