In Libano cambiano le politiche di accoglienza dei profughi siriani

Avviati rimpatri in Siria, ma le condizioni di sicurezza paiono minime. Un racconto dal campo da parte dell'operatore del programma Mediterranean Hope, Simone Scotta

Roma (NEV/Riforma.it), 12 giugno 2019 – C’è preoccupazione in Libano per la recente decisione presa dalle autorità libanesi di demolire tutte le strutture che ospitano rifugiati siriani che non siano in legno e/o plastica (se ne parla qui).

Nella Valle della Bekaa la recente eviction del campo di Deir el Qamar, nord-ovest rispetto alla città di Baalbek, ha spaventato molto la comunità di rifugiati siriani che vive ai confini con la Siria, nell’est del paese. 700 persone sono state buttate letteralmente in mezzo alla strada nel giro di poche ore, senza aver ricevuto alcun preavviso dalle autorità libanesi.

Proprio quest’ultimo punto spinge molte persone incontrate negli ultimi giorni da parte del team di Mediterranean Hope della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), impegnato in loco, a chiedere aiuto in modo ancor più immediato, urgente, facendo pressione per sveltire i tempi delle pratiche di preselezione per poter uscire dal paese il prima possibile. Tante sono le famiglie segnalate e seguite nell’area e W., donna sposata con quattro figli che vive nell’Ovest della Valle della Bekaa, si augura che il Consolato francese possa prendere in considerazione la loro applicazione in modo rapido, considerando non solo la situazione di vulnerabilità vissuta in Siria ma ancora, a maggiore ragione, la stretta attualità in Libano. Stessa cosa per L., affetto da un’anemia abbastanza grave, in fase di preselezione per il Corridoio verso l’Italia, che si augura di partire al più presto.

Il Libano, che ospita attualmente poco meno di 980.000 rifugiati siriani, è il paese con il tasso più alto al mondo per rapporto rifugiato/cittadino locale (1 a 4), e ha inserito nel corso degli anni tante restrizioni alla residenza dei rifugiati siriani nel paese. Oltre a dover trovare uno “sponsor” – cittadino libanese che “garantisca” per l’omologo siriano, che ha messo in atto un meccanismo di ricatti e abusi che purtroppo si verifica abbastanza spesso – in alcune zone vi sono veri e propri coprifuoco per i Siriani a partire dalle 8 di sera. L’alto costo della vita – pochissime per esempio le strutture cliniche pubbliche nel paese e comunque con costi importanti per l’accesso – accanto all’impossibilità di venire impiegati in ben 27 tipologie di lavoro differenti, rende ancora più difficoltosa la resistenza dei siriani.

David Gilbour nel 1980 scrisse nel suo libro, a proposito dei rifugiati palestinesi: “il destino di molti agricoltori e braccianti della Palestina era un lavoro malpagato nei cantieri edili libanesi”. A distanza di quarant’anni è difficile non traslare la frase verso i rifugiati provenienti dalla Siria.

Dallo scorso anno il Libano ha iniziato attivamente ad incoraggiare il ritorno verso la Siria, considerata sicura alla luce del conflitto (quasi) terminato. Secondo stime UNHCR in questo ultimo anno 16-17000 persone sono tornate in Siria: la paura permane a causa dei report che emergono su persone che al loro ritorno sono scomparse, con notizie di ritorsioni soprattutto verso chi proveniva da zone considerate sotto il controllo dell’opposizione. Le case distrutte, la mancanza di opportunità lavorative, il 52% delle strutture scolastiche utilizzate per ospitare rifugiati interni, la sanità in forte difficoltà a causa dell’embargo completano il quadro interno siriano, di fatto facendo si che il ritorno largamente preannunciato da media e forze politiche libanesi non stia avvenendo.