Roma (NEV), 28 giugno 2019 – La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene dal Libano ed è stato scritto da Stefano Specchia, che ha seguito il viaggio dell’ultimo corridoio umanitario da Beirut a Roma.
Difficile essere preparati ad una realtà simile, pochi giorni per preparare la partenza, avvisare le persone in attesa di risposte, lasciare indicazioni e gestire le emergenze, lasciare tutto in ordine e in tre ore è già Beirut dall’altra parte del Mediterraneo. Conosco bene quel mare, ci sono nato – penso -, non sarà così difficile. Riconosco le facce, gli odori, il caldo soffocante, le case diroccate, mi sento a casa. Ma non lo sono ed è subito evidente, la storia degli uomini che vivono da questa parte del mare è stata impietosa, crudele, violenta.
Anni di odio, di divisione, la continua ricerca di un nemico, contrapposizione al posto della condivisione, chiusura contro accoglienza, hanno distrutto questa terra e l’hanno consegnata alla violenza arbitraria, alla sopraffazione sistematica, al razzismo istituzionalizzato.
Beirut è una città militarizzata, divisa in quartieri asfissianti, a tenuta stagna, uno sull’altro, ognuno con la sua religione, le sue regole, i suoi tribunali e le sue ingiustizie; tante regole, nessuna regola. Povertà nera, disperata accanto a ricchezza ostentata, un odio strisciante spaventoso e palpabile, un equilibrio tra fazioni assicurato dai militari – troppo giovani per essere tanto armati – e ovunque, palazzi crivellati dall’artiglieria dell’ultimo conflitto, che sembrano mantenersi in piedi solo per ricordare ciò che oggi è innominabile ma che è ancora negli occhi tristi di tutti.
Una pace che si regge su un filo sottilissimo, la tragedia è imminente e la gente sembra vivere nell’attesa, parlando di pace per esorcizzare la paura.
A due giorni dal mio rientro a Roma, dopo il mio primo viaggio a Beirut, cerco di mettere in ordine le mille informazioni ricevute, ad elaborare le sensazioni provate in questi giorni incredibili, febbrili di tanto lavoro e pochissimo sonno.
Mi rendo conto che in questo posto tutto appare ostile, sembra che i miei colleghi non ci facciano caso, che per loro sia tutto normale, forse sono io che esagero a prendere alla lettera ogni loro racconto, ogni raccomandazione, o forse devo ancora prendere le misure con una realtà così distante dalla mia normalità.
Fatto sta che quando vedo il mio primo checkpoint con tanto di carro armato, esclamo – ma è vero quel coso? – e le mie colleghe rispondono con una scrollata di spalle, come se niente fosse. L’adrenalina non mi lascia un attimo, ma alla fine del secondo giorno, dopo tutte le persone incontrate, mi sento meno a disagio, già un po’ cittadino di questo caos chiamato Beirut.
Percepisco nell’aria sentimenti contrastanti, la paura dell’altro, il razzismo e l’odio sono istituzionalizzati, provo pena per chi vive lì e non riesco a non pensare a chi nel mio paese cavalca queste spirali suicide.
Nello stesso tempo riesco ad intuire un filo di bellezza, di pace di meraviglia di accoglienza che mi ispira un sentimento di riconoscenza. Riesco ora a capire cosa mi è successo, sento di avere nuovi occhi.
Appena sbarcato, il messaggio è stato subito abbastanza chiaro, sei straniero e non sei il benvenuto.
La fila per gli stranieri sotto la supervisione delle milizie, il militare che ha maltrattato il mio passaporto, mi ha guardato minaccioso fisso negli occhi per minuti infiniti senza dire nulla, per poi dirmi serio – il tuo alloggio è molto vicino alla mia caserma – ed il suo timbrare con forza eccessiva, teatrale, il mio documento, sembravano dirmi “il tuo passaporto qui non conta nulla, i tuoi diritti qui li decido io”.
Ero impotente di fronte a una persona con un’arma. Non mi ero mai sentito tanto solo. Ripreso il mio passaporto, ho finto un sorriso meglio che ho potuto e sono andato via. Ero in pensiero per la mia collega, fermata da un altro militare, non so dire se ho avuto paura, ma è arrivata chiara una sensazione di nostalgia che mai avevo provato così forte.
Non è un modo di dire, è stato un sentimento reale. Siamo abituati a pensare alla nostalgia in relazione all’assenza di qualcuno, di una persona, degli affetti, ma a me non mancava una persona, a me mancavano i miei diritti, il mio paese, la mia democrazia, ciò che mi rende libero, mi mancavano come una persona amata. E mai mi ero reso conto di quanto mi è cara la mia libertà che avevo sempre dato per scontata.
Stringevo il mio passaporto come se abbracciassi l’Italia intera, quel pezzo di carta rappresentava il mio legame con il mio mondo libero che mi sembrava insopportabilmente distante.
Dopo tanti anni di lavoro con i richiedenti asilo ed i rifugiati, dopo migliaia di persone conosciute, di storie ascoltate, di tragedie e gioie condivise, tante volte ho ascoltato la violenza, ma mai l’avevo sentita tanto vicina e solo ora comprendo quello che credevo di conoscere.
Non si è mai abbastanza forti.
La disperazione dell’attesa del documento, le lacrime, l’ansia, la sofferenza, ora capisco il significato di quel pezzetto di carta scritto a penna tanto insignificante e tanto agognato, a cui mi sono attaccato con così tanto calore, ora so che quel pezzo di carta rappresenta la salvezza, le persone che amiamo, la nostra identità e la nostra libertà. E mi vergogno per chi, nel mio paese, si comporta come il militare con l’arma, vittima del suo stesso odio, insultando il mio paese e la sua civiltà che nessuno mai ha trattato da straniero in terra straniera.
Nemmeno il tempo di soffermarsi sulla sensazione di oppressione che subito compare la mia collega, è passata anche lei e mi viene incontro con aria vittoriosa, stemperiamo la tensione con espressioni colorite ognuno nel proprio dialetto e ci fiondiamo fuori dall’aeroporto.
Ci infiliamo in macchina alla velocità della luce e raggiungiamo l’ufficio, lungo la “linea del fronte”, dove ci attendono le nostre colleghe, abbracci, calore, mai stato così felice di incontrare delle facce amiche.
Cena, briefing, poche ore di sonno e si parte presto con i colloqui con le famiglie che partiranno o che vorrebbero partire con il corridoio umanitario, tutto il giorno senza sosta.
Giriamo i quartieri in auto, mi offro di guidare ma me lo sconsigliano perché i militari ai posti di blocco sono più accomodanti con le donne, in un caldo opprimente, in un traffico senza regole in cui la mia collega sembra trovarsi totalmente a suo agio, passiamo la giornata a girare da una parte all’altra dei blocchi, superiamo checkpoint, macerie, grattaceli, la mediatrice mi racconta la storia di ogni blocco, il gruppo che lo abita, le regole che lo distinguono dagli altri, le carneficine accadute, le bellezze artistiche.
Incontriamo tante persone che ci chiedono di partire, di tirarli fuori da quella miseria, ci aprono le porte delle loro abitazioni, stanze, sottoscala sovraffollati, la luce va via spesso, l’acqua se c’è non è potabile.
Ci offrono quello che possono, perché anche da questa parte del mare, nonostante tutto l’ospitalità è ancora sacra.
La mediatrice non si ferma un attimo, parla, spiega, traduce, consola, rassicura, mi chiedo come faccia, siamo in otto in un salone di tre metri quadri, al livello dell’asfalto, siamo in penombra, abbiamo finito l’acqua e non si respira ma lei non perde mai concentrazione e tenerezza.
La figlia più giovane di questa famiglia ha quindici anni, ha una faccia dolcissima, è felice di vederci, ha fatto gli esami questa mattina ed ha avuto il massimo dei voti, ci mostra orgogliosa il diploma. Vuole diventare un medico, ma non potrà continuare a studiare, perché è siriana, e per questo criterio geografico non potrà continuare gli studi.
Mi ricorda molto un’Italia di tanti anni fa, che sento il dovere di non dimenticare perché non è un capitolo su un libro di storia, è qui davanti a me nella sua realtà disumana.
Non ci avrei mai creduto se non l’avessi visto con i miei occhi.
Ci raccontano con dignità tutto ciò che hanno passato negli ultimi anni, la guerra, le morti, i bombardamenti, il padre, ha paura per la sua famiglia, per il futuro dei figli, per le condizioni di salute di sua moglie che è malata. Ha già perso un figlio, morto davanti all’ospedale, bloccato dalle guardie perché suo padre non aveva soldi per pagare le cure.
Non chiede aiuto, non supplica, racconta e non pretende nulla se non di essere ascoltato.
Usciamo, ci abbracciano, risaliamo in macchina e ricominciamo, tutto il giorno, sempre. Restiamo lucidi, scherziamo, non ci lasciamo spezzare dal peso dei ricordi e dal presente delle persone che incontriamo. Torniamo in ufficio, facciamo quadrato, ognuno si prende cura dell’altro, ci diamo calore. Di nuovo una cena rapida, briefing, sveglia presto ed un altro giorno.
È il giorno della partenza, incontriamo il gruppo, lo prepariamo al viaggio con l’aiuto delle psicologhe.
Stanno lasciando tutto il loro mondo per un salto nel buio, ed ora realizzo che il loro è un atto di fede basato solo sulla nostra parola.
Lascio andare il pensiero, la responsabilità quanto la felicità di poter prendere parte a tutto questo, sono emozioni troppo complesse da gestire e non c’è tempo.
Ci riempiono di domande, come sarà? L’italiano è difficile? Potrò studiare? Potrò lavorare? Potrò curarmi?
Difficilissimo spiegare il concetto di Servizio Sanitario Nazionale, a loro sembra un sogno, e noi che lo diamo per scontato di colpo ne siamo fieri.
La mediatrice risponde a tutti, sembra parlare cento lingue, gli altri organizzano i documenti, si occupano della burocrazia, nessuno sta mai fermo, tutto è veloce, ogni minuto c’è qualcosa da sistemare in fretta. Finiamo l’incontro, mettiamo tutto a posto, e andiamo via.
Abbiamo tre ore libere per prepararci alla partenza, decido di camminare, ormai mi sento tranquillo, ma cambio strada di fronte ad un checkpoint, non succede nulla, ma non mi fido perché sono uomo, cammino da solo e la mia provenienza si vede da lontano, voglio visitare la moschea, magnifica, ci sono passato tante volte in questi giorni, ma non c’era mai il tempo di fermarsi. Rimango sbalordito dalla bellezza, e mentre sono lì a bocca aperta, un signore anziano mi viene incontro, mi sorride e mi dice in uno strano inglese che anche se sono straniero sono il benvenuto, gli sorrido, sembra che abbia capito tutto che stia chiudendo un cerchio.
Siamo pronti alla partenza, tocca a me e alla mediatrice accompagnare il gruppo, siamo in aeroporto alle 22, ma partiremo alle 4.
Assistiamo agli addii, alle famiglie che si dividono forse per sempre, ma una cosa così non si può raccontare.
Il resto dell’equipe ci accompagna ci sostiene, ci prende in giro. Alla fine ci abbracciamo forte.
Impieghiamo ore a passare i controlli, sotto uno sguardo di odio razzista da parte degli altri passeggeri, non di una persona o due ma di tutte, l’odio è una costante, tutti contro tutti.
Non colgo subito il motivo, me lo spiega la mediatrice, che con tutto ciò che ha da fare trova anche il tempo per farmi vedere ciò che non posso riconoscere, ci odiano perché li aiutiamo, ci guardano con disprezzo, come a volte a Roma si guardano i Rom, commentano malignamente il modo di vestire, di essere di queste persone che conosciamo personalmente e per la cui dignità possiamo garantire, ma l’odio non è razionale e non c’è niente da fare, adesso “siamo noi i Rom”.
Una signora ingioiellata pulisce con un fazzoletto le sedie da cui ci siamo appena alzati, ma non si siede, sta solo sottolineando un concetto.
Arriviamo all’imbarco per un soffio. Partiamo, il volo va bene, il personale di volo ci saluta, ci ringrazia e ci incoraggia, arriviamo a Fiumicino, si aprono le porte del gate, e troviamo ad attenderci l’Equipe dell’accoglienza, ora tocca a loro, e ancora facciamo quadrato abbracci, commozione, calore, felicità.
È fatta.
Il mio lavoro nell’accoglienza è già ripartito, è un lavoro grande, complesso, bellissimo.
Sono tornato a Roma con occhi nuovi, con nuova energia e con un legame che sento più forte con i miei colleghi dall’altra parte del mare.
Credo che non ringrazieremo mai abbastanza il loro lavoro, la loro incoscienza e la loro generosità, senza cui niente di tutto questo sarebbe possibile. Bisogna essere un po’ pazzi per restare sulla prima linea di un fronte, con una tale gioia, senza mai perdere la sensibilità. Quello che penso è che siamo tutti parte di qualcosa di incredibile, difendiamo materialmente i valori di solidarietà e libertà che tanto ci è cara e tanto è costata a chi è venuto prima di noi, senza pensarci troppo, senza prenderci troppo sul serio, questo naturalmente mi riempie di orgoglio e mi fa sorridere pensare che alla testa di una cosa tanto grande e tanto importante, sulla prima linea di tanta sofferenza, ci sia la bellezza semplice di sette ragazzi allegri, gentili, coraggiosi. L’adrenalina non mi ha ancora lasciato e penso spesso a Beirut, ma non mi manca la città, mi mancate voi che siete stati la mia casa accogliente per qualche ora.
E adesso come sempre si riparte, torniamo al lavoro.
Aspetto il momento di riabbracciarvi il prossimo mese, il prossimo corridoio, andiamo avanti.
Chi salva una vita salva il mondo intero.