Alessandra Trotta: “Essere chiese capaci di un servizio umile, che sappia raggiungere e rialzare gli esclusi”

L’Agenzia NEV propone un ciclo di interviste alle più alte cariche delle chiese protestanti italiane. Iniziamo il 2020 con la moderatora della Tavola valdese Alessandra Trotta

Alessandra Trotta

Roma (NEV), 2 gennaio 2020 – L’Agenzia NEV propone un ciclo di interviste alle più alte cariche delle chiese protestanti italiane. Abbiamo interpellato Alessandra Trotta, dal 30 agosto 2019 moderatora della Tavola valdese, prima metodista a ricoprire questo incarico, consacrata al ministero diaconale nel 2003. Le abbiamo chiesto di fare un bilancio di che cosa è andato bene e che cosa è andato male nelle chiese e in generale nella società.

Alessandra Trotta al Sinodo dello scorso agosto, nuova moderatora della Tavola valdese, organo che rappresenta ufficialmente le chiese metodiste e valdesi nei rapporti con lo Stato e con le organizzazioni ecumeniche

Cosa è andato bene, cosa male nella società, nella politica, nelle chiese ?

Mi preoccupano particolarmente due mali che mi sembra attraversino trasversalmente tutti i luoghi del vivere sociale e che nell’ultimo anno si sono resi, se possibile, ancora più evidenti. Uno è la contrapposizione sempre più estremizzata, irrazionale, violenta fra schieramenti che definiscono i propri confini anche sul criterio dell’accettabilità sociale di esseri umani rinchiusi in categorie astratte: i migranti, gli omosessuali, le donne, gli ebrei, i musulmani o i cristiani… Il secondo è la disaffezione generale nei confronti dell’ideale democratico, con il sorgere – persino fra i suoi più convinti sostenitori –  del dubbio che, in mancanza di cittadini educati al valore della libertà, memori delle lezioni della storia, capaci di una lettura della realtà attraverso un’informazione libera e plurale, portatori di una solida visione di bene comune, la democrazia si riduca ad un formale esercizio del voto che premia chi accarezza i sentimenti e gli istinti peggiori delle persone, rafforzandoli, legittimandoli, guadagnando consenso attraverso la creazione di nemici da respingere; e sfoci, dunque, inevitabilmente in populismi e nazionalismi autoritari e violenti.

Le cose che vanno bene sono meno visibili, fanno meno rumore. Sono i tanti esempi di umanità e di generosa solidarietà che uniscono le persone che si guardano veramente negli occhi, si ascoltano, si vengono incontro, sanno condividere, come quelli che vediamo spesso accadere nelle nostre chiese, negli istituti diaconali in cui ci si prende cura delle persone più vulnerabili, nei centri giovanili in cui si impara a crescere nel confronto con persone che non avresti mai scelto di incontrare. E poi il risvegliarsi di una certa coscienza, forse minoritaria, ma comunque incoraggiante, di alcune questioni veramente cruciali per il futuro dell’umanità. Ne cito tre: quella ambientale, quella del drammatico crescere delle diseguaglianze e quella del rovesciamento della piramide demografica, che rende le nostre società sempre più dominate dalle preoccupazioni e dalle ansie dei più vecchi e sempre meno alimentate dai sogni e dal creativo sguardo al futuro dei giovani. 

E le chiese?

Per le Chiese cristiane appartiene senz’altro alla realtà di ciò che va male lo sguardo chiuso nella paura della decrescita, dell’irrilevanza, che le rende permeabili di fronte a questi mali che toccano, sfidandolo, il cuore di un Evangelo che è annuncio di un amore in controtendenza, fuori moda forse; un amore che – ricorda l’apostolo Paolo – non ha paura, non cerca il proprio interesse, non s’inasprisce, non addebita il male, non gode dell’ingiustizia, la cui forza abilita – penso come nessun’altra – a scegliere e agire in coerenza con la vocazione ad essere “sale della terra e luce del mondo”.

Appartiene alla realtà di ciò che è andato bene, il crescere della consapevolezza che queste sfide cruciali sono “ecumeniche”: o le si vince insieme o si perde tutti come cristiani.

Greta Thunberg persona dell’anno per il Time. E’ d’accordo?

Penso che si tratti di scelta condivisibile nella misura in cui coglie il fenomeno di un nome e di un volto che in pochi mesi sono diventati, in modo davvero sorprendente, un simbolo, ma anche un collante ed un catalizzatore per l’impegno (si spera non solo di denuncia, ma anche di disponibilità ad un mutamento dello stile di vita) di milioni di giovani in tutto il mondo; rendendo visibile un movimento in grado – si direbbe – di orientare in qualche misura i consumi (e penso che le grandi corporation se ne siano già accorte…). Se come “moda” passeggera o come vera svolta capace di assumere una reale valenza politica, lo si vedrà nei prossimi anni.

In ogni caso, se da protestanti siamo educati a diffidare dei piedistalli su cui si pongono figure indicate come esemplari, da credenti penso che dobbiamo continuare a incoraggiare i più giovani a credere che il contributo di ciascuno possa fare la differenza anche di fronte ai grandi problemi del mondo che ci fanno sentire piccini ed irrilevanti. La salvaguardia di un creato profondamente interconnesso è da decenni, d’altra parte, un tema in cui le Chiese cristiane sono impegnate a fare la differenza, forse dovremmo avere più coraggio nel pensarci come luoghi efficaci di educazione e spazi di sperimentazione di pratiche coerenti. 

Certo, pensando al destino personale di questa ragazzina, poco più che bambina, mi auguro che riesca a vivere una vita reale, al di fuori della gabbia del personaggio in cui è stata trasformata.

La lotta contro l’antisemitismo sarà il tema della prossima Settimana delle libertà 2020. Perché?

Per le ragioni che sono ben spiegate nell’atto con cui l’assemblea della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia ha deciso di dare alle Chiese della federazione questa indicazione: “Non possiamo […] dimenticare che la storia dell’Europa moderna e ancor più contemporanea ci insegna che le parole e le azioni di odio contro gli ebrei sono il primo segnale di una deriva liberticida e di attacco ai principi su cui si basano le nostre democrazie costituzionali, fondate in reazione agli orrori che hanno travolto l’Europa nel secolo scorso”.

Il riemergere di sentimenti ed azioni di antisemitismo – ai quali le Chiese cristiane hanno talvolta, nel passato, offerto giustificazioni – è davvero una cartina di tornasole dell’avvio di una china scivolosa di fronte alla quale ogni sottovalutazione, distrazione o indifferenza rischiano di fare pagare all’umanità un prezzo salatissimo,  come magistralmente descritto dalla nota citazione di un pensiero del pastore luterano Martin Niemöller, da giovane simpatizzante del nascente partito nazista, di cui diventò successivamente strenuo oppositore e per questo rinchiuso per anni in un campo di concentramento: “Prima di tutto vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare“.…

Penso che le chiese aderiranno con senso di responsabilità all’invito della FCEI, esercitando quel ruolo di vigilanza e impegno responsabile a cui ci chiama anche la nostra storia di protestanti italiani. 

Quali sono le prossime sfide per le chiese valdesi e metodiste?

Vedo chiese in trasformazione, tutt’altro che ferme, che hanno bisogno di dotarsi di strumenti più efficaci per leggere con onestà, potenzialità e fragilità, la realtà. E soprattutto di rafforzare la fiducia necessaria per alimentare a tutti i livelli della vita della Chiesa il desiderio di partecipazione attiva e messa a frutto dei talenti che servono per affrontare le sfide che abbiamo davanti, che in gran parte condividiamo con molte Chiese cristiane in Europa.

La sfida di dire l’Evangelo in una società che cambia, di comprenderne i bisogni profondi di salvezza, di riconciliazione, di integrità, di accoglienza che non sono certamente scomparsi, ma si esprimono in linguaggi e forme a cui non siamo abituati, che a volte ci spiazzano e ci spaventano.

La sfida di essere chiesa “insieme” per tutte le generazioni e per persone che provengono da contesti culturali diversi, come ormai sperimentato in moltissime delle nostre chiese locali; offrendo spazi di ricerca e partecipazione aperti a tutti, in cui le cose non si continuano a fare in un certo modo solo perché “si è sempre fatto così”,  ma vi sia la capacità di mettere in discussione ciò che non risponde più alle esigenze dell’oggi, salvaguardando però il nucleo di principi e valori essenziali che vengono dalla storia e dalle esperienze delle generazioni precedenti, di cui mi auguro che queste generazioni riscoprano la gioia e la capacità di raccontare il senso.

E poi la sfida di essere chiese diaconali, capaci di un servizio umile, interno ed esterno, che sappia raggiungere e rialzare gli esclusi, i “non visti” e in cui chiese locali e diaconia organizzata sappiano sempre più collaborare, offrendo le une la conoscenza del territorio, la continuità di relazioni quotidiane personali, l’inserimento in reti della società civile ed ecumeniche e una bella dose di passione evangelica; e l’altra visione allargata, capacità progettuale ed organizzativa, professionalità.