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#SPUC2020 “Ci trattarono con gentilezza” a Lampedusa

Oggi pomeriggio si svolgerà sull’isola siciliana un momento ecumenico di preghiera, presso la parrocchia di San Gerlando. Il testo dell'intervento di Marta Bernardini, operatrice di Mediterranean Hope, che ha lavorato per anni a Lampedusa e rappresenterà la Federazione delle chiese evangeliche in Italia

Di
Agenzia NEV
-
24 Gennaio 2020
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    Il racconto che abbiamo appena sentito, in questo testo di Atti, potrebbe essere quasi una perfetta descrizione dei viaggi attraverso il Mediterraneo che intraprendono disperatamente tanti fratelli e sorelle in fuga da guerre e persecuzioni. Ripercorriamolo.

    Nel racconto abbiamo un gruppo di uomini che, proprio in queste acque tra la Grecia e Malta, durante la traversata, viene colto da una terribile tempesta e per giorni – dal racconto si dice due settimane – rimane in balìa del mare e delle intemperie.

    A bordo di questa imbarcazione abbiamo tre gruppi diversi di uomini: i soldati, i marinai e i prigionieri. Tra i prigionieri c’è anche l’apostolo Paolo che deve comparire al cospetto dell’imperatore a Roma. Durante il viaggio, vista la situazione disperata che attraversano per giorni, si creano numerosi momenti di tensione e conflitto. Per salvarsi, i marinai tentano di fuggire con le scialuppe di salvataggio e, successivamente, i soldati vogliono ammazzare i prigionieri per evitare che anche loro fuggano.

    Insomma, sembra esserci panico e confusione, ma Paolo riesce più volte a riportare la speranza e a tenere il gruppo unito. L’unico modo per salvarci, dice, è salvarci tutti insieme. E poi, finalmente, la terraferma, la salvezza, l’approdo. Arrivano, tutti, a terra, sani e salvi. E qui il versetto della nostra settimana: “Ci trattarono con gentilezza”.

    I naufraghi vengo subito accolti con grande gentilezza, inaspettata si legge in altre traduzioni. Questa gentilezza spiazza gli uomini che fino a un momento prima stavano affrontando furia, violenza, paura, sospetto. La gentilezza, quindi, riporta subito i naufraghi alla loro condizione di essere umani. E’ questo il momento del vero approdo. “L’approdo porta con sé la speranza, poiché la “proda” è luogo facile all’attracco, acconsente all’arrivo e accoglie[1]”. La parola gentilezza, quindi, potrebbe anche essere sostituita con la parola umanità[2]: “Ci trattarono con umanità”.

    E questa umanità ritrovata, salvata, viene subito riunita intorno a un fuoco. Ecco che le persone si fermano, si siedono, e si mettono in cerchio, insieme. In questa circolarità (che era già avvenuta una volta durante la traversata nel momento di spezzare il pane insieme) avviene il superamento delle gerarchie, non ci sono più soldati, marinai, prigionieri, ma persone che si sono salvate, insieme. In questa circolarità si superano gli squilibri di potere e i conflitti, ci si guarda negli occhi e si scopre nell’Altro, nell’Altra, la nostra stessa condizione umana.

    Da questa ospitalità inaspettata, che con la sua forza cancella la violenza del viaggio, nella circolarità di riconoscere l’Altro, nasce altrettanta vitalità. Infatti Paolo, nei versetti successivi, farà diverse guarigioni a persone malate dell’isola di Malta. Ecco che la circolarità continua: come ricevo, do. E in questo racconto, prima si deve attraversare la tempesta, il conflitto, poi si deve saper ricevere, saper essere accolti e, solo dopo, si può dare, restituire. E’ Dio che ci ha amati per primi.

    Che cosa ci dice oggi questo racconto? Torniamo all’inizio.

    Questo viaggio spaventoso e disperato sembra molto simile a quelli che oggi fanno parte della nostra storia. Invece di soldati, marinai e prigionieri abbiamo milizie, trafficanti di esseri umani, la cosiddetta guardia costiera libica e le persone che scappano in cerca di una vita diversa, in cerca di una speranza, in cerca di una possibilità. La traversata diventa un incubo, la salvezza sembra irraggiungibile – “Per parecchi giorni non si riuscì a vedere né il sole né le stelle, e la tempesta continuava sempre più forte. Ogni speranza di salvarci era ormai perduta”, dice il testo.

    La tempesta del racconto, con tutta la sua violenza e furia, oggi però non è uno stato dell’atmosfera, un espressione della forza della natura. La tempesta oggi è fatta dalle porte – o dai porti – chiusi, dalle leggi che invece di difendere la vita, la negano. La tempesta oggi è un sistema che lascia morire in mare, nei deserti, nei lager libici. La violenza della tempesta di oggi è più sottile, perché immobilizza le persone ai confini, lasciandole in uno stato di abbandono e di privazione, che li trasforma in «morti viventi»[3], in esseri umani ancora vivi, ma privati del loro carattere umano a cui viene negata la capacità di agire.

    L’atto di approdare a terra, o essere raggiunti dalla nave di una ONG, non è sufficiente per salvare i naufraghi di oggi, non basta per superare quella tempesta. Quante volte anche questa isola è luogo di arrivo, terra di salvezza. Ma se la tempesta l’abbiamo creata noi con le nostre leggi, con le nostre scelte politiche ed economiche, servirà molto di più di un molo su cui far poggiare i piedi.

    Serve saper trattare con “gentilezza”, serve restituire umanità a un intera parte di mondo che invece deumanizziamo per giustificare la nostra violenza e la nostra avidità. Serve sapere sedersi in cerchio, abbattere le differenze di potere e guardare l’Altro negli occhi. Serve riconoscere se stessi nell’Altro e nell’Altra.

    Dietro la violenza di lasciare i nostri fratelli e sorelle morire, ci sta l’idea latente che siano un po’ meno umani di noi, un po’ meno persone, quindi aventi un po’ meno diritto di scegliere dove andare e che vita desiderare.

    Ma come cristiani e cristiane abbiamo un altro sguardo, giusto? Dio non si è fatto forse uomo attraverso Gesù Cristo? Non è stato Dio ad abbattere per primo questa gerarchia, questa distanza? E Gesù, nella sua corporeità, non rappresenta l’umanità intera, con pari dignità e libertà? Gesù stesso ci insegna ad andare verso l’Altro per riconoscere noi stessi. Lo fa attraverso le figure emarginate, lo fa attraverso le donne, attraverso i poveri, attraverso i malati. Gesù attraversa continuamente i confini tra puro/impuro, sacro/profano, servo/padrone, povero/ricco, vita/morte[4].

    Il racconto di Atti ci dimostra quanto siamo, tutti e tutte insieme, letteralmente sulla stessa barca, sia nella tempesta che nell’approdo. Tutti nel racconto temono per la propria vita, e quando credi sia tutto perduto, quando pensi che non ci sia più speranza, quando ti sembra di non vedere l’orizzonte, l’unico modo per superare quella crisi è unirti ai tuoi compagni e compagne di viaggio. E in Cristo siamo tutti viaggiatori insieme! Paolo ci dice che per salvarci dobbiamo restare insieme, alla pari, facendoci forza e riscoprendoci nell’umanità dell’Altro/a.

    Nell’introduzione della SPUC di quest’anno si legge: “Questo racconto ci interpella come cristiani che insieme affrontano la crisi delle migrazioni: siamo collusi con le forze indifferenti oppure accogliamo con umanità, divenendo così testimoni dell’amore di Dio verso ogni persona? […] Nei tempestosi viaggi e nei fortuiti incontri della vita, la volontà di Dio per la Chiesa e per tutta l’umanità raggiunge il suo compimento; come Paolo proclamerà a Roma, la salvezza di Dio è per tutti (Atti 28,28).

    E quindi, fratelli e sorelle, o siamo liberi e libere insieme (siamo salvi e salve insieme) oppure siamo schiavi e schiave insieme[5].

     

    Amen.

    [1] Vanessa Ambrosecchio (2020), tp24.it.

    [2] Luca M. Negro (2020), nev.it.

    [3] Mbembe A. (2003), Necropolitics, in “Public Culture”.

    [4] Green E. (2007), Il Dio Sconfinato, Claudiana, Torino.

    [5] Solnit R. (2017), Gli uomini mi spiegano le cose. Riflessioni sulla sopraffazione maschile, Ponte delle Grazie, Milano.

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