Catania (NEV), 4 febbraio 2020 – La criminalizzazione delle Ong che salvano vite in mare “non ha nessun senso”, una volta che sei stato imbarcato su una di queste navi, una volta che hai visto con i tuoi occhi gli sguardi e le sofferenze di chi ha preso la via del mare.
Davide Orcese, classe 1991, volontario di Mediterranean Hope a Lampedusa, è stato negli scorsi giorni sulla Open Arms, partecipando come medico volontario alla 75^ missione della organizzazione spagnola, con la quale la Federazione delle chiese evangeliche in Italia collabora da anni.
Domenica scorsa, dopo due settimane in mare, l’arrivo della nave a Pozzallo, dove sono state fatte sbarcare le 365 persone salvate nel Mediterraneo.
“Il bilancio di questa missione – dichiara Davide Orcese – è per me molto positivo, è un’esperienza che spero di rifare presto e sono contento di aver avuto questa possibilità”.
“Il momento più duro – continua – è stato durante l’ultimo salvataggio, quando i due gommoni erano fuori da diverse ore, sull’imbarcazione avevamo già tante persone, e contemporaneamente sono state male anche due persone di quelle già a bordo, una delle quali poi è stata evacuata. Sono ore concitate e momenti piuttosto difficili, considerato che poi sono arrivate a bordo altre 80 persone”.
Come medico, Orcese si è occupato delle visite ai migranti soccorsi. “Il primo momento è il triage: vengono fatte salire 20 persone per volta, ci sono 3-4 stazioni, dove gli viene prima tolto il giubbotto di salvataggio, poi passano a una procedura per registrarli e riconoscerli rispetto ai gruppi coi quali arrivano, io, a quel punto, con uno schedario, mi occupavo di registrare età, sesso, provenienza, eventuali famigliari a bordo e patologie mediche rilevanti e visibili. Poi gli si consegnano coperte e acqua, le persone soccorse a quel punto possono riposarsi, mentre lo staff medico torna ad occuparsi di chi ha presentato qualche problema specifico”. Nelle due settimane della ultima missione di Open Arms, ci sono state infatti due persone evacuate per problemi medici.
“Da medico – prosegue il volontario -, mi sono reso conto di quanto possa essere difficile il nostro lavoro. Una missione in mare ti fa rivalutare quello che fai ‘sulla terra ferma’, in corsia, negli ospedali”.
Per questo, ogni dibattito o polemica sul ruolo delle navi civili che soccorrono le persone nel Mediterraneo “non ha senso, perché basta vedere queste persone, sentire le poche storie che riescono a raccontare, di quello che succede in Libia… Avrete visto le immagini di un ragazzo che aveva i segni delle torture sul suo torace. I suoi erano i segni più evidenti ma posso testimoniare che tanti altri avevano subito violenze e torture, tra le persone che abbiamo soccorso in questi giorni, e tanti probabilmente non riuscivano a parlarne”. I segni fisici, insomma, sono solo la punta dell’iceberg delle cicatrici più profonde.
Oggi, per Davide Orcese, il trasferimento da Catania a Palermo e poi il ritorno a Lampedusa, dove continuerà a fare il volontario per Mediterranean Hope, programma della FCEI, per altre tre settimane, insieme all’operatrice sull’isola Claudia Vitali.
E il ricordo più felice di questa esperienza appena conclusa? “Alla fine dello sbarco a Pozzallo, quando è sceso l’ultimo dei migranti salvati, si tira il fiato, finalmente, ci si rilassa e ho pensato, beh, che un po’ il mio dovere l’avevo fatto”.
Un equipaggio e 365 vite in salvo.
La missione 75 torna a casa dopo 2 settimane di difficili operazioni di soccorso e di cura delle tante persone a bordo del vecchio #OpenArms.
Grazie per la vostra umanità e per aver salvato e protetto tante vite alla deriva ❤️ pic.twitter.com/gv8PAwGEc6— Open Arms IT (@openarms_it) February 4, 2020
Leggi anche il “diario di bordo” di Davide:
l’ultimo giorno, con lo sbarco a Pozzallo
27 gennaio, l’intervista prima di partire