Ilenya Goss: il coronavirus non cambia il giuramento di Ippocrate

Medicina delle catastrofi, linee guida per anestesisti e rianimatori, ricadute biologiche e spirituali, digiuni necessari, crisi come opportunità. Le riflessioni bioetiche della pastora e dottoressa Ilenya Goss, membro della Commissione bioetica delle chiese battiste, metodiste e valdesi

Foto Annie Spratt - Unsplash, dettaglio

Roma (NEV), 2 aprile 2020 – Intervista a Ilenya Goss. Pastora delle chiese valdesi di Mantova e Felonica Po, è laureata in Medicina e Chirurgia, Filosofia e Teologia. Dopo l’abilitazione alla professione di medico chirurgo, ha insegnato Bioetica, Storia della medicina ed Etica medica presso l’Università di Torino, nei corsi di Laurea in Infermieristica e Medicina. Collaboratrice alla didattica delle Medical Humanities nei corsi di Evidence Based Medicine dell’Università di Torino, fa parte della Commissione bioetica delle chiese battiste, metodiste e valdesi. Proprio in questi giorni, la Commissione sta discutendo e lavorando sul tema della pandemia e delle linee guida etiche ad essa relative.

Ilenya Goss

Ilenya Goss parla di Medicina delle catastrofi, di linee guida per anestesisti e rianimatori, che in alcuni Stati americani decidono “chi salvare” con criteri legati a disabilità fisiche e psichiche, delle ricadute biologiche e spirituali delle restrizioni, di quanto questo “digiuno” di socialità e comunità abbia forse qualcosa da insegnarci. Le riflessioni bioetiche della pastora spaziano dall’idea della crisi come opportunità alla possibilità di recupero di valori, di spazio, di tempo, e anche del silenzio e della solitudine. L’isolamento può essere il luogo fertile in cui preparare le risorse per il futuro, in termini personali e collettivi. Si parla di persone in prima linea, di pazienti, di famiglie, di bambini, di donne, di come l’età e il contesto possano cambiare il nostro modo di percepire la pandemia.

Leggi l’intervista integrale a Ilenya Goss.


Il coronavirus e le restrizioni necessarie a limitare i contagi hanno vincolato i nostri corpi e, in parte, alcuni nostri diritti, in nome di un bene comune superiore. Secondo lei, come medico e come pastore, questa situazione che risvolti ha dal punto di vista biologico e spirituale?

Le misure di contenimento provocano effetti a vari livelli, sociale, politico, biologico. Il primo effetto biologico è proprio quello voluto del contenimento del contagio. Indubbiamente vivere in isolamento ha tra i primi effetti la necessità di prendersi cura in modo più consapevole del solito della propria igiene, dell’alimentazione, del movimento.

Le obiezioni fatte alle restrizioni, considerate da alcuni lesive delle libertà fondamentali, sono frutto di un’interpretazione limitata della realtà, che non coglie il senso vero delle misure stesse: non si tratta di un sacrificio oblativo, ma di comportamenti intelligenti a beneficio della collettività e quindi anche individuale.

Forse, nell’immediato, l’individuo coglie l’aspetto faticoso di ciò che subisce: lo abbiamo visto nelle fughe da Milano e in altre città, con comportamenti che si sono ripetuti anche all’estero. Le violazioni delle restrizioni ci raccontano un individualismo esasperato tipico della nostra società e ci mostrano come il singolo faccia fatica a percepirsi parte di essa, non vedendo un vantaggio per sé. Questo tipo di atteggiamento ci fa sentire quanto siamo superficiali: non siamo una comunità, ma un insieme di individui che pensano al proprio interesse.

Dal punto di vista psicologico l’isolamento sta avendo e avrà delle ricadute importanti. È un bene che questi argomenti abbiano una risonanza mediatica: il rischio di aumento della violenza domestica in condizioni di restrizione è reale e già si comincia a vedere. Inoltre le differenze fra vivere in una grande casa o nel disagio di una precarietà economica e magari in locali sovraffollati, modificano sensibilmente l’impatto delle restrizioni, a livello psichico ed emotivo. Alcuni hanno già iniziato a parlare di emergenza psichiatrica, che si vedrà anche quando verranno allentate le misure. Ci saranno ripercussioni anche sui bambini, che hanno subìto un cambiamento della loro routine dall’oggi al domani, senza gradualità.

Per quanto riguarda le ricadute di tipo spirituale, sto notando che nei social e in rete si sono moltiplicati i contenuti multimediali e video di chiese e associazioni, non solo cristiane, a livello globale.

Credo sia necessario un ripensamento dei linguaggi religiosi. Questa è un’opportunità per riflettere su come e quanto le singole persone alimentino la propria vita spirituale e di fede. Le restrizioni potenzialmente portano alla necessità di prendersi cura un po’ da soli della propria vita interiore, e non è necessariamente un male. Non potersi riunire per le attività comunitarie, culti compresi, ha certamente un impatto sul vissuto interiore, ma non necessariamente negativo. Ci stimola a una riflessione teologica oltre che pastorale.

Le chiese lo hanno accettato? O hanno piuttosto cercato di intervenire ad ogni costo, attraverso un utilizzo massiccio della tecnologia?

Personalmente credo che ci sia una esagerazione, una sovrabbondanza, dovuta ad una sorta di horror vacui, segno dell’incapacità di cogliere il cuore della crisi. C’è la convinzione che le persone abbiano continuamente bisogno di ricevere contenuti, come se il silenzio fosse solo vuoto. Personalmente penso che la cura pastorale, personalizzata e intima, raggiunga meglio, soprattutto certe fasce d’età. Questo tempo potrebbe aiutarci a capire come prenderci cura al meglio della vita spirituale, sia individualmente sia collettivamente.

Il personale medico, soprattutto nelle zone più colpite, si è trovato e forse si troverà ancora di fronte a una scarsità di risorse ospedaliere. Avvenire ha segnalato la scelta di alcuni stati americani che sembrano annientare il giuramento di Ippocrate, indicando i disabili, anche psichici, come categoria che potrebbe non usufruire dei respiratori in caso non ce ne fossero a sufficienza. Cosa ne pensa?

Il giuramento di Ippocrate da un manoscritto bizantino dell’XI secolo (Biblioteca Vaticana), immagine tratta da wikipedia

Le notizie sulle misure straordinarie e le linee guida americane hanno fatto discutere e, come spesso accade nei momenti critici, ci sono motivi di riflessione da non trascurare. La situazione di emergenza obbliga a rivedere le regole di accesso alla Terapia Intensiva (il triage), dato lo squilibrio tra le risorse disponibili e la richiesta. Si è parlato di negare la ventilazione alle persone disabili: espressa in questi termini la notizia è inquietante, ma andando a vedere i singoli documenti degli Stati, si vede che in alcuni di essi, sotto la grande categoria “disabili”, sono intese situazioni cliniche precarie come patologie cardiache, polmonari e neurologiche. In questi casi non si valuterebbe il valore di una vita rispetto ad un’altra per decidere a chi offrire la risorsa disponibile, quanto piuttosto la probabilità di successo della terapia. In condizioni normali possiamo permetterci di offrire terapia anche a pazienti con pochissima probabilità di averne giovamento, ma in condizioni di grave penuria di risorse bisogna decidere con criteri diversi se sia il caso o meno di mettere in Terapia questi pazienti negando la risorsa a pazienti con più probabilità di guarigione.

È molto più allarmante dove le linee guida parlano invece di disabilità psichica, perché uno stesso trattamento potrebbe avere esito simile in un disabile psichico e in un non disabile.

Trovo invece inaccettabile la linea guida che fa riferimento al tipo di occupazione e che darebbe priorità di accesso alle persone impiegate in servizi essenziali; in questo caso la valutazione si sposta sul “valore” di una vita e non sulle sue condizioni cliniche.

Un altro punto presente in questi documenti è la dichiarazione anticipata: si invita la persona a dichiarare se in caso di scarsità di risorse rinuncerebbe o meno al supporto respiratorio. È una questione delicata, che avrebbe senso nella dimensione del dono, qualora una persona preferisse che sia un’altra a poter godere di una certa terapia decidendolo in modo del tutto spontaneo; è un comportamento che può avere altissimo valore etico, ma se inserito in una linea guida rischia di sottoporre le persone a una pressione troppo alta. Non si può pretendere una scelta in un senso o in un altro. Penso possa essere accettabile solo in caso sia una dichiarazione spontanea di una persona, deve essere una scelta del paziente e solo sua.

Già a inizio marzo la Società italiana anestesisti e rianimatori aveva fornito delle raccomandazioni che rimettevano al principio di maggior speranza di vita ove i colleghi in prima linea si fossero trovati a dover scegliere “chi salvare”. Si tratta di una situazione in cui penso nessun operatore della salute vorrebbe mai trovarsi e che va a toccare nel profondo ogni persona coinvolta: pazienti, parenti, curanti, ma anche la società nel suo complesso. Come si può secondo lei trovare le parole giuste per tutti e per ciascuno?

Le linee guide della Società italiana di anestesia analgesia rianimazione e terapia intensiva (SIAARTI) sono state citate da importanti Istituti di bioetica, fra cui l’Hasting Center di New York. L’Italia, suo malgrado, è diventata un modello di riferimento essendo stata travolta dalla pandemia subito dopo la Cina.

Queste linee guida hanno 2 obiettivi fondamentali. Il primo è quello di aiutare gli operatori (nessuno dei quali vorrebbe mai trovarsi in condizione di fare delle scelte in emergenza). Per questo occorre fare delle valutazioni fuori dalla terapia intensiva, maturando riflessioni che diano una direzione e decisioni condivise.

Il secondo obiettivo è quello di aprire al dibattito pubblico un problema etico e clinico, come la bioetica dovrebbe fare. È suo compito stimolare un dibattito, interrogare l’opinione pubblica, le leggi dello Stato, la politica e ogni singolo cittadino per avere una visione allargata della questione.

Le linee guida della SIAARTI nascono come testo di riferimento a marzo 2020 quando ci si è trovati con alcune terapie intensive d’Italia sottoposte a un ritmo di richieste di accesso molto superiore al normale. È realistico che ci si trovi a dover decidere a chi assegnare un posto quando più persone ne hanno bisogno contemporaneamente.

Il fine è quello di dare la migliore risposta possibile alla popolazione, ed è la stessa attenzione data alla collettività in condizioni normali con il triage: criteri precisi per valutare se sia il caso o no andare in terapia intensiva. In emergenza il ragionamento etico deve essere più ampio e tenere conto di un contesto in cui molti hanno bisogno della stessa cosa e nello stesso momento.

Foto National Cancer Institute – Unsplash

È qui che dobbiamo agire secondo i protocolli della medicina delle catastrofi. Non deve essere tutto lasciato alla responsabilità dell’operatore, è importante che sia coinvolta la collettività. In tempi normali la Medicina mette in primo piano l’appropriatezza e la proporzionalità della cura per quel paziente, e al letto del malato non si discute di allocazione delle risorse, di personale, di farmaci, di posti letto… questo si affronta ad altri livelli, si dà per scontato che la risorsa c’è; in condizioni straordinarie la medicina delle catastrofi, pur mantenendo questi criteri, vede cambiato il contesto. Entra nella decisione un altro elemento: cosa ho a disposizione e quante persone devo trattare, cosa faccio a chi e cosa faccio prima. Il criterio della giustizia e della allocazione delle risorse diventa qui molto importante.

A livello personale, penso che l’attuale situazione di restrizione delle visite ai malati, con la scarsa o nulla interazione fra curanti, pazienti e familiari, renda queste decisioni particolarmente gravose per il personale sanitario che si trova a gestire da solo l’emergenza. Ecco perché in mancanza della possibilità di fare scelte concordate sul momento, è importante avere linee guida chiare.

Proprio l’impossibilità di visita dei parenti rende anche importante un servizio di assistenza spirituale: dove ai parenti è fisicamente impossibile accedere, perché le misure di contenimento del contagio salterebbero, potrebbe intervenire personale dedicato. In alcuni ospedali il servizio si sta attivando grazie anche all’intervento delle diocesi; per prestare assistenza pastorale c’è qualche difficoltà in più e ho modo in questi giorni di rendermene conto.

L’etica e il diritto ci suggeriscono di garantire a tutti cure giuste, nel modo giusto, per una maggiore qualità della vita. Il coronavirus sta cambiando qualcosa?

Il coronavirus non cambia l’idea di fondo che ispira il Servizio sanitario nazionale, la Sanità pubblica fondamentale non cambia. Lo ha ripetuto più volte in questi giorni il dottor Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri. L’obiettivo è offrire il massimo possibile a ciascuno malato; in emergenza non si può nascondere però che il massimo possibile è sottoposto a dura prova; in pandemia i principi non cambiano, ma aggiungiamo un criterio di giustizia che è condizionato alle risorse limitate, allo squilibrio fra richieste e risorse. Qui si apre un discorso politico, sul perché siamo in una condizione così intensa di squilibrio, per i tagli alla sanità degli ultimi venti anni e per la gestione del servizio sanitario.

La crisi non cambia il giuramento di Ippocrate, che deve adattarsi però operativamente alle esigenze del momento.

Una pastorale della malattia e della guarigione. Cosa le piacerebbe dire alle persone che leggeranno questa intervista?

Direi che una pandemia, per la maggior parte delle persone inattesa e inimmaginabile, mette alla prova tutti gli equilibri, anche quelli interiori. Spiritualmente emergono molte domande ed è normale che sia così. Molti si chiedono che relazione ci sia tra ciò che accade e il Dio in cui credono.

È il bisogno umano di chiedere perché le cose succedono; cercare spiegazioni esterne sul ruolo di Dio, per i credenti, è una tendenza che si attua sia nelle crisi personali che in crisi più globali.

Insistere sul cercare la causa, il perché “Dio” permetta una certa cosa, cercare varie spiegazioni, per un non credente ad esempio la caccia all’untore, il complottismo, la ricerca di un responsabile o di un colpevole, tutte queste insistenze sono a mio avviso modi per evitare il cuore del problema. Sono modi per non lasciarsi interrogare a fondo, alla luce della parola del Signore, per i credenti, o alla luce di altra tradizione religiosa, o per non lasciarsi interrogare in generale, anche per chi non professa alcun credo.

In questi giorni ho ripensato ad un versetto dal Vangelo secondo Matteo (24:40), difficile da capire, e da accettare, dove si afferma: “uno sarà preso e l’altro lasciato”.

Immagine tratta dal sito ufficiale del numero di emergenza 1522

Una frase di questo tipo, in questo tempo, mi sembra un richiamo a capire che di fronte a una situazione grave e sconvolgente, che stiamo vivendo a livello mondiale, ciascuno ha una reazione diversa, viene colpito in modo diverso, personale. Questo mi fa pensare che, di fronte a ciò che accade, c’è chi lavora sotto stress in ospedale, chi lavora da casa, chi non ha una casa, chi è esposto, chi è fragile, chi non ha le cure, chi è terrorizzato dal contagio, ci sono donne che subiscono violenza nelle case da dove non possono uscire, “uno sarà preso, uno sarà lasciato”. Dobbiamo provare a trovare il nostro posto oggi, sapendo che non siamo noi a decidere, che siamo stati colti dove eravamo.

Queste parole risuonano come un invito. Non poter viaggiare, rispettare la quarantena, anche nella vita interiore porta un suggerimento importante: prendi coscienza di dove sei nel tuo percorso di vita. Il punto è accettare che questo accada, che siamo costretti in questo momento a ritrovare il nostro posto e a starci, a capire il nostro ruolo e starci, come singoli, come comunità. Siamo costretti a rivedere se abbiamo disertato, e questo vale per tutti, per chi ha una coscienza etica, una responsabilità, per chi ha una vita di fede: stiamo o no rispondendo a questa crisi? Come stiamo agendo e reagendo? Non vale solo per i credenti, ma per tutti.

Nella tradizione ebraico-cristiana si avvicina la Pasqua e siamo invitati a un cambiamento di sguardo, a non fermarci alla rovina, ma a scoprire che ci viene concessa ancora vita. Cosa ci soccorre? Molte voci diverse chiamano al cambiamento, politico, economico e sociale, ma anche interiore, di esistenza personale e collettiva, esistenze provate che trovano nella crisi i semi di vita nuova da coltivare e accompagnare. Nel dolore della crisi c’è una chiamata, c’è una occasione per il mondo.

Come chiese, la rinuncia che ci viene imposta dalle restrizioni ci ha impedito di ritrovarsi per il culto e altre attività.

Forse sono controcorrente, ma ritengo che questo “digiuno di comunità” abbia qualcosa da insegnarci. Anziché negare le distanze e il silenzio, accettare la privazione che ci viene imposta, stare un po’ da soli, ci può aiutare a liberarci dall’illusione in cui forse ci trovavamo. Pensavamo di essere comunità, ma magari non lo siamo. Cogliamo l’occasione per quella “teshuvah”, per quel ritorno, per un’inversione di rotta. È l’occasione che ci permette di ritornare a una vita comunitaria più vera, più essenziale.

Prima, forse, vivevamo una illusione, sia come credenti sia come società. Il fatto che stiamo patendo l’impossibilità di socialità, di andare a un concerto, a un aperitivo, il fatto che cerchiamo di sfuggire alle restrizioni, ci racconta che l’idea di stare insieme non è mossa dalle buone motivazioni di, appunto, essere insieme; se fosse così, la restrizione sarebbe accettata in nome del bene comune.

Questo è un “digiuno” che ci aiuta a fare il punto. Per capire se vogliamo stare insieme tanto per fare, per distrarci, o se invece forse abbiamo bisogno di riacquistare quella profondità e quel valore, ora che ne siamo deprivati, delle relazioni che richiedono cura e amore. Questa è la comprensione che ci servirà anche per il dopo, quando la crisi pandemica sarà superata. Sarà bello che tutto questo dolore attraversato non sia passato invano, ma che siamo stati capaci di rispondere con un rilancio di vita, con un rinnovamento, con una correzione della rotta. Alcuni di noi potrebbero scoprire che proprio in mezzo a questo buio tremendo hanno avuto la possibilità di ritrovare forza, vita e luce.