Coronavirus. Servizio cristiano, in Sicilia i “resistenti” delle aree interne

Gianluca Fiusco, direttore del Servizio cristiano di Riesi: “Tornate dopo il covid, perché vale la pena vivere in questi centri, dove riscoprire la dimensione umana dello stare insieme, del condividere, isolati, ma non da soli, senza ghetti, ma con ponti e relazioni”

Foto Servizio cristiano

Roma (NEV), 16 aprile 2020 – Gianluca Fiusco è il direttore del Servizio cristiano di Riesi, in provincia di Caltanissetta, in Sicilia. L’Agenzia NEV lo ha intervistato.

Opera diaconale valdese nata da un’idea visionaria del pastore Tullio Vinay sessantuno anni fa, è un punto di riferimento educativo (scuola dell’infanzia e elementare), sociale e riabilitativo (con un nuovo centro diagnostico) e lavorativo (commercializzazione di prodotti biologici del territorio).

Direttore Gianluca Fiusco, quali attività avete sospeso e quali invece sono operative al Servizio cristiano?

Attualmente gli insegnanti stanno proseguendo le attività scolastiche con il lavoro agile. Continuano le attività agricole, di manutenzione straordinaria, le attività essenziali di ufficio con turni di presenza e i servizi di logopedia, psicomotricità e counseling psicologico in tele-riabilitazione. Abbiamo adottato la cassa integrazione orizzontale, dal giardiniere fino al direttore, con una riduzione del 40% delle giornate di lavoro.

Stiamo inoltre seguendo percorsi di formazione, sia per la didattica sia per l’educazione. Non sappiamo quanto durerà l’emergenza e vogliamo essere preparati. La Summer school di agosto è in cantiere e speriamo di poterla confermare. Il virus è arrivato anche a Riesi, dove c’è stato un morto per delle complicanze, ma più del virus temiamo la paura. È necessario non rimanere bloccati e cercare di proiettarci oltre.

Cosa state facendo per mantenere la didattica e quanti bambini sono coinvolti?

La nostra scuola dell’infanzia conta 50 bambini e bambine; la primaria, 85. Sono tutti a casa.

Per quanto riguarda la primaria siamo partiti con la didattica a distanza quasi all’indomani dal fermo delle attività scolastiche. Abbiamo implementato i contenuti e le interazioni tramite la piattaforma “Google suite” e prodotto video di supporto didattico su YouTube. Questi video sono utilizzati anche da altre scuole. Abbiamo iniziato anche con i compiti in diretta, con verifiche quotidiane e raccolta delle presenze. Per la scuola dell’infanzia è più complicato, perché a quell’età si punta al rafforzamento delle abilità dei bambini. Per ora abbiamo raccontato delle fiabe online e prevediamo ulteriori progetti.

È bello che stia venendo fuori, soprattutto nelle aree interne che hanno sofferto lo spopolamento, una potenzialità, una capacità reattiva, una resilienza molto più efficaci di quelle che potevamo aspettarci. Ad esempio abbiamo stipulato un protocollo di intesa con l’Istituto comprensivo di Riesi e dato vita così a una collaborazione immediata per superare i problemi relativi agli adempimenti burocratici e all’uso delle tecnologie.

In che modo state vivendo questo momento?

Qui abbiamo vissuto due fasi. Una prima fase legata alla paura dell’emergenza, visto che stava arrivando questo virus, non sapevamo cosa fosse, quanto pericoloso potesse essere e che cambiamenti avrebbe portato nelle nostre esistenze. Per i bambini e le bambine è stato un grande trauma doversi separare dalla scuola, dal Servizio cristiano, che è un luogo particolare, strutturalmente e non solo. L’eco di questo disagio ci è arrivato quando i bambini hanno iniziato a inviarci dei video di feedback dopo che avevamo attivato le lezioni su YouTube.

La seconda fase è di assestamento. Ci stiamo abituando a fare i conti con questa quotidianità e il nostro compito è non arrenderci, per fare in modo di essere pronti a tornare a vederci, non più attraverso gli strumenti tecnologici, ma in presenza.

Covid, nord, sud, città, campagna. Secondo lei quali sono le caratteristiche più significative nella gestione dell’emergenza nel vostro territorio?

Come aree interne abbiamo una marcia in più. Da vent’anni a questa parte abbiamo vissuto i fenomeni di dislocamento, con la conseguente riduzione dei servizi sanitari, scolastici e di sviluppo. Le persone puntano verso le città, per garantirsi una sopravvivenza, uno stipendio, una dignità.

I “resistenti”, perlopiù gli anziani e le giovani famiglie confinate in questi luoghi, hanno compreso che tutto sommato rimanere qui è stata una fortuna perché il virus non è arrivato in modo così violento come può essere arrivato nelle grandi città. Inoltre abbiamo riscoperto la dimensione della comunità, oltre le appartenenze: diritti di cittadinanza, mutuo soccorso, solidarietà concreta, aldilà dei vincoli della diffidenza e della distanza che comunque ci possono essere.

Ho notato grandi operatività e creatività, a Riesi come altrove, riscoprendo il senso di quella che forse potremmo definire la migliore pubblicità per le aree interne. Mi sento di dire: tornate! Tornate dopo il covid, perché vale la pena vivere in questi centri, dove riscoprire la dimensione umana dello stare insieme, del condividere, isolati, ma non da soli, senza ghetti, ma con ponti e relazioni.

Sulla sua pagina Facebook lei ha parlato di ghetti, sottoproletariato urbano abbandonato a se stesso, di degrado sociale. Ne parla a proposito dello Sperone, la zona di Palermo nell’area sud-orientale della città, dove fra Pasqua e pasquetta “allegre brigate di condomini sui tetti intente ad arrostire, mangiare … sono state apostrofate in tutti i modi. Incivili, maledetti, ignoranti”. Lei ha scritto “Mi ha fatto rabbrividire che un altro palermitano rivendicasse l’estinzione come mezzo per eliminare quel che non gli piaceva”. Il coronavirus sta quindi tirando fuori il peggio di alcune persone?  

All’inizio pensavo questo, vedevo comportamenti che puntavano alla brutalità. Il tempo, questa onda lunga di quarantena, di reclusione, di clausura, sta invece tirando fuori anche l’umanità che, speriamo, permarrà. Non vorrei che riprendessimo a vivere come se nulla fosse accaduto. In realtà è cambiato tutto.

Noto un senso di speranza. Questa può essere davvero un’opportunità. Ci sono stati dei morti, ed è tragico, ci sono state sofferenze, difficoltà, restrizioni negli spostamenti, non c’è ancora un vaccino. Ma è il momento, per i credenti e per le chiese (perché se non ora, quando? Per usare le parole di Primo Levi) di liberarci da alcune sovrastrutture che ci portano a voler spiegare tutto e burocratizzare tutto. Forse è il momento di liberarci da vincoli in cui eravamo ingabbiati e tornare a dare la nostra testimonianza, mettendo da parte una certa secolarizzazione e riconoscendoci come fratelli e sorelle che vivono una stessa condizione. Il ricco e il povero sono confinati a casa allo stesso modo, certo con strumenti diversi, ma anche noi dobbiamo ricavare da questa emergenza degli elementi di testimonianza e impegno per la società.


Il Servizio cristiano ha attivato, fra l’altro, una rubrica dal titolo “Noi siamo speranza” sul suo canale YouTube.

Il prossimo appuntamento della rubrica, in diretta con Sandro Ruotolo, si terrà il 17 aprile alle 10.30. Gli interventi e le precedenti puntate si possono rivedere su questo canale. Clicca QUI.