Lampedusa (NEV), 28 ottobre 2020 – “Correte! E fategli i sorrisi più grandi che potete da dietro le mascherine”, questo ha scritto mia mamma, sapendo che mi stavo dirigendo a uno sbarco.
Gli ostacoli dell’accoglienza sono tanti, quelli delle relazioni umane sono numerosi, in generale, le barriere fisiche della pandemia si sono solo aggiunte a quelle che già c’erano: la mascherina, gli schermi, il contatto fisico inesistente, sono solo gli ultimi aggiunti alla lista.
Al molo, alterno il francese all’inglese in modo più compulsivo che sistematico, e non riuscire a dire due parole in più di benvenuto perché non mastico neanche un po’ di arabo mi fa sentire inadeguata. Non riuscire ad articolare un pensiero mi blocca e mi dà l’impressione di non poter scavalcare la barriera linguistica. Devo fare ricorso ad altro, a un linguaggio più personale, alla comunicazione silenziosa.
Con queste persone si comunica con gli occhi, che sono la maggior parte delle volte occhi spettacolari.
Ho incontrato tanti occhi neri profondi e liquidi, stanchi, arrossati, commossi. Occhi verde smeraldo, talvolta quasi azzurri, in contrasto con la bella pelle olivastra, occhi spalancati, socchiusi, riconoscenti. Ci guardiamo, e oltre a non riuscire a comunicare verbalmente, non riusciamo neanche a vederci in viso, a vedere quali sensazioni percorrono l’una e l’altra faccia. Non sappiamo se sotto quella mascherina ci sia un sorriso abbozzato, due labbra strette e una mandibola serrata nel dolore, un viso rilassato, svuotato da ogni pensiero.
Usiamo gli occhi per dire tutte quelle cose che forse non avremmo neanche il coraggio o la capacità di esprimere, per quello che riguarda me perlomeno, li strizziamo in un sorriso, non distogliamo lo sguardo nell’incontro uno a uno. C’è tanta potenza in uno sguardo, ancora di più quando è l’unico mezzo di comunicazione, diventando ancora più genuino e diretto.
Quindi forse la mascherina da un lato complica le cose, perché rende indecifrabile l’espressione altrui al primo impatto, dall’altro non dà altra scelta che fare riferimento agli occhi e orientare la relazione in base allo sguardo. Come è stato detto a Niccolò (uno degli altri operatori MH sull’isola, ndr), “i tuoi occhi non mentono”, scherzando sulle sue possibili origini siriane.
Talvolta gli occhi bastano, nel contatto che io cerco in questi incontri gli occhi sono spesso più che eloquenti. Tanto gli occhi degli adulti quanto quelli dei bambini. Anche perché spesso questa distinzione tra grandi e piccoli si fa più sottile e sfumata, quasi inesistente. Se i bambini hanno la capacità – e ancora il “diritto”, socialmente parlando – di manifestare tutto ciò che sentono, in questi momenti ci si riappropria in qualche modo di questo diritto, anche e soprattutto i più grandi.
Ho questa impressione, in queste situazioni si torna un po’ alla manifestazione emozionale dei bambini: sento e penso qualcosa, quindi la manifesto, in modo naturale, genuino, spontaneo. C’è un’espressione diretta delle emozioni, dei bisogni, delle sensazioni. Anche perché una volta messo piede a terra, dopo un viaggio simile, non credo ci sia più spazio né energia per i virtuosismi, i filtri, il contegno.
E poi cosa dovresti avere, paura di essere giudicato da qualcuno? Siamo ben oltre, e nulla ti rende meno uomo, meno donna, meno te stesso. Anzi, avere ancora la forza e il coraggio di esprimere sé stessi, la propria persona, ciò in cui credi, è un grande sintomo di umanità, di resistenza e di vita. Puoi affermare ancora che ci sei, che quello sei tu e che sei qui, finalmente.
Che poi, nella baraonda e nella fretta degli sbarchi tutto questo è effimero, temporaneo, invisibile. Ma io sono certa che il subconscio a tutte queste cose ci fa caso. Che l’anima, o come vogliamo chiamarla, si nutra anche di questo. Io voglio pensare che in qualche modo il semplice sguardo, il sorriso dietro la mascherina, due parole farfugliate in una lingua che non appartiene né a me, né a loro, possano essere linfa per l’umanità.
Umanità intesa nel senso ampio di natura umana, ma anche di sentimento ed espressione di solidarietà, che non si articola tra un mittente e un destinatario, un bisognoso e un assistente, ma tra uomini e donne, che sono nello stesso luogo nello stesso momento, e lì si crea lo scambio, la condivisione silenziosa, l’apertura all’altro spoglia da lirismi, congetture, speculazioni e dialettiche.
L’anima si nutre di incontri, di sguardi, di scambi. Nonostante tutti gli ostacoli che l’attualità ci impone.