Roma (NEV), 2 febbraio 2021 – Quando andavo all’Università avevo una compagna che proveniva dai Balcani. Era molto più grande di noi e si era iscritta a teologia perché suo figlio diciannovenne, si era impiccato. “Mamma, se muoio sto meglio, sono più vicino a Dio”. Duša, così si chiamava la mia compagna di studi, studiava teologia per cercare una spiegazione all’inspiegabile, all’indicibile, all’insopportabile.
Oggi, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, i suicidi si collocano al secondo posto tra le cause di morte nella fascia d’età 15-29 anni. Seconda causa di morte anche in Italia. L’ospedale Bambin Gesù di Roma in questi giorni ha dato l’allarme: il suo reparto che accoglie adolescenti e giovani che hanno tentato il suicidio è costantemente pieno: si è passati dai 12 casi del 2011 ai 237 del 2018. Tra questi anche bambini di 10-11 anni per autolesionismo e tentato suicidio. E durante l’ultimo anno i numeri sono cresciuti.
In questi giorni notizie tragiche di morti bambine, una bambina di 10 anni a Palermo morta per asfissia per una sfida su un social, un bambino di 9 anni trovato impiccato in camera sua, chiamano soprattutto alla cautela nel “fare di tutta l’erba un fascio”, nel generalizzare il disagio e l’impreparazione adulta, e richiedono nello stesso tempo ascolto e riflessione. In questi mesi, ormai un anno, di pandemia, la scuola è stata considerata come luogo pericoloso per la sicurezza. Gli adolescenti soprattutto, studenti delle scuole superiori, si sono trovati il proprio mondo ristretto in uno schermo. Le trasgressioni necessarie per crescere hanno cercato vie d’uscita diverse dalle relazioni con i propri coetanei, ormai vietate. 6-8 ore davanti ad uno schermo, ad uno smart phone. La didattica a distanza, che certamente è stata una prova di resistenza e presenza degli adulti, nonostante la pandemia, ha reso la scuola quasi inutile, almeno per la politica. C’è poi la solitudine delle famiglie, dei genitori che delegano agli schermi e ai social le proprie responsabilità educative: molte e molti sono anche costretti a farlo, dalle esigenze lavorative, dall’assenza di sostegno economico e psicologico. Chi guida le famiglie in situazioni di confine, chi può aiutare a ritrovare speranza e un senso a quante e a quanti di fronte al mondo, a “tutta la vita davanti” arrivano a ritenere preferibile morire? L’urgenza è proprio quella di “non chiamarsi fuori”, di non considerare gli episodi di disagio, di autolesionismo, di suicidio, come intimi, legati a caratteristiche personali peculiari, ma leggere in essi il bisogno di riconoscerci legate le une agli altri. La scuola è socialità. Per questo è salute.
Nelle Scritture bibliche, il rapporto tra le generazioni è fondato su una promessa: la presenza, in ogni età, del soffio creatore di Dio, che dona sogni a chi è anziano, visioni alle persone giovani, che dai lattanti trae lodi, che fa danzare le fanciulle. Ricevere questa promessa, vivere la Speranza, chiama ad ascoltare i silenzi e le chiusure di quante e quanti, sulle soglie della vita, non trovano un senso, oggi. Penso ora a Duša, ora che sono anche madre, spero che nell’essere compagne di studi, nel condividere un pezzo di strada con tante e tanti di noi, giovani allora, abbia potuto riconoscere un barlume di speranza, per sé. Per il mondo.
Cristina Arcidiacono
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