Odio e pericoli online / 4. Dai pregiudizi alle discriminazioni

Con l’avv. Ilaria Valenzi, consulente legale della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), continuiamo il nostro viaggio fra i rischi della rete. Seconda parte dell’intervista sui discorsi e i crimini d’odio

Foto T. Chick McClure @tchickmcclure da unsplash.com

Roma (NEV), 15 febbraio 2021 – Ilaria Valenzi è consulente legale della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Proponiamo la seconda parte dell’intervista su sicurezza informatica e odio online. Per leggerne la prima parte, clicca qui.

L’Italia è partner della campagna “nohatespeech” del Consiglio d’Europa, nata per contrastare l’incitamento all’odio. Anche a livello giornalistico è stato fatto molto (solo per fare due esempi, pensiamo al lavoro di GiULiA-giornaliste sulla misoginia in rete, ma anche ai comunicatori cristiani mondiali contro l’hate speech). A che punto siamo a livello normativo?

Il contrasto all’odio e al suo incitamento è un tema fondamentale. Da tempo collaboro a diversi progetti di ricerca, presso una fondazione che si occupa di odio in ambito religioso ed etnico, e insieme all’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (UNAR).

Ci sono diverse componenti da considerare. Una riguarda il concetto di “crimini di odio”. Non esiste in Italia una definizione giuridica di crimine di odio. Viene usata quella elaborata dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), di cui siamo membri. In base ad essa, il crimine di odio è un reato commesso contro l’individuo o contro i suoi beni, motivato da un pregiudizio che l’autore nutre nei confronti della vittima, in ragione di una cosiddetta “caratteristica protetta” di quella persona. Ha due elementi contemporanei: il fatto commesso, che rientra nella diffamazione o nella violenza privata, e poi la motivazione per cui viene commesso.

Qual è il target dei crimini di odio?

È un target specifico. L’autore di questo tipo di reati vuole colpire proprio quel bersaglio e lanciare un messaggio di non accettazione di quella persona o della sua comunità di appartenenza.

Cosa si intende per “caratteristica protetta”?

La caratteristica protetta è quel tratto distintivo fondamentale che viene condiviso da un gruppo di persone. Riguarda un aspetto profondo dell’identità di un individuo e crea l’identità tipica di un gruppo.

Le più diffusamente protette dagli ordinamenti giuridici europei sono le caratteristiche legate alle origini etniche, al credo e alla religione, alla nazionalità, all’orientamento sessuale, all’appartenenza di genere e alla disabilità.

Che relazione esiste fra discriminazioni e caratteristiche delle vittime?

Le caratteristiche possono essere reali (nel caso ad esempio in cui una vittima possieda le caratteristiche di una minoranza) oppure presunte (nel caso in cui si ritenga che la vittima appartenga a una determinata categoria).

I crimini di odio sono pluri-offensivi e producono effetti a più livelli. Un reato commesso colpisce la vittima, ma effetti dannosi si riverberano su tutto il gruppo di minoranza cui appartiene e crea un discorso di incitamento collettivo all’intolleranza.

La paura di denunciare è un fenomeno diffuso.

Sì, fra gli elementi da sottolineare c’è il cosiddetto under reporting (reato sottostimato da chi lo subisce) fenomeno per il quale le vittime, oppure chi è testimone di un crimine di odio, per molti motivi non denuncia questo tipo di reato. Questo può accadere perché non si ha cognizione di esser di fronte a un reato. Oppure per un vero e proprio rifiuto. Alcune persone non pensano che l’aggressione sia avvenuta per quel pregiudizio, lo rimuovono e si auto-incolpano. O, ancora, non c’è fiducia che il reato sia perseguito, o c’è il timore che la propria riservatezza, la propria privacy venga compromessa (questo capita soprattutto nelle comunità LGBTQI+). Oppure si temono ritorsioni.

C’è una sottovalutazione del fenomeno da parte di chi dovrebbe tutelare le leggi?

Ci sono effettivamente dei casi di under recording (quando un reato è sottostimato da chi registra la denuncia). È ancora più grave, secondo me, rispetto all’under reporting. È un fenomeno per cui le stesse forze di polizia non riconoscono la matrice discriminatoria del reato, pertanto non lo registrano e non lo investigano come tale.

Questo può accadere per diversi motivi. C’è molto da lavorare a livello di comunicazione. Da un lato c’è un mancato riconoscimento degli indicatori di pregiudizio, i cosiddetti bias indicators. Bisogna capire se c’è stata una discriminazione per un motivo specifico. Se non c’è sensibilità nel riconoscere la natura di quell’atto, esso non viene perseguito. Poi, c’è la carenza di risorse e strumenti. Infine, una mancata formazione adeguata porta alla tendenza generale alla sottovalutazione del fenomeno.

Quali sono i rischi connessi ai discorsi d’odio e dei reati ad esso connessi?

Il rischio è quello dell’escalation. Dall’incitamento derivano l’accettazione sociale delle discriminazioni; l’odio normalizzato nei confronti di alcune categorie specifiche; l’aumento dei crimini, anche quelli a bassa intensità. Non parlo solo dei casi eclatanti che conosciamo bene, ma anche di una serie di comportamenti offensivi più sottili, che vanno delle battute alla goliardia, che vengono socialmente accettati, ritenuti non offensivi, non discriminatori. Eppure questi sono basati sul pregiudizio e rischiano di portare a commettere reati o atti discriminatori in diversi contesti. Dall’accesso ai pubblici servizi, nell’ambito di assunzioni o licenziamenti. L’escalation avviene così. Il comportamento è condizionato dai pregiudizi, che portano alle discriminazioni, che degenerano in crimini d’odio (che possono essere aggressioni, diffamazioni, minacce, vandalismo, profanazione dei luoghi sacri). Questa escalation si chiama piramide dell’odio.

Per quanto riguarda i discorsi d’odio, invece, che elementi normativi abbiamo?

Mentre per i crimini d’odio abbiamo almeno una definizione, per l’hate speech non c’è una chiarezza giuridica, né in Italia né a livello internazionale.

Esiste una raccomandazione del Consiglio d’Europa che definisce discorsi d’odio ogni forma di espressione che abbia la capacità di diffondere, promuovere o giustificare l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo o altre forme di odio che siano basate sull’intolleranza, inclusa quella espressa attraverso una forma di nazionalismo aggressivo o di etnocentrismo. La discriminazione è intesa come ostilità contro le minoranze, i migranti, le persone di origine migrante.

Un’altra definizione è desunta dalla decisione quadro del 2008 che definisce discorso d’odio ogni comportamento consistente nell’istigazione pubblica alla violenza o all’odio verso un gruppo o verso persone appartenenti a un gruppo, in riferimento all’origine etnica, al colore, alla religione, all’ascendenza, all’origine nazionale o etnica.

Cosa si può fare per questa mancanza di una definizione univoca del concetto di “discorso d’odio”?

Le due definizioni precedenti mi trovano d’accordo, ma manca sempre qualcosa. Una definizione connotata sul tema razziale e migratorio lascia da parte le discriminazioni di genere e sull’orientamento sessuale. Ci si arriverà, anche per armonizzare varie normative vigenti.

Occorre sicuramente bilanciare i tre principi presenti a livello costituzionale. I principi di cui all’articolo 2 (sui diritti inviolabili delle persone), all’articolo 3 (sui principi di uguaglianza) e all’articolo 21 (sulla libertà di manifestazione del pensiero).

Al momento la norma del codice penale per contrastare l’odio è quella che colpisce la propaganda e l’istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa (604bis).

E l’odio online?

L’hate speech ha una valenza particolare online. L’espansione del web e dei social ha reso questo fenomeno sempre più forte e con caratteristiche specifiche che lo rendono pericoloso, perché permane nel tempo, è accessibile a lungo e gli effetti sono ricorrenti e itineranti. Le piattaforme rendono la diffusione dell’odio più rapida e un contenuto rimosso può apparire sotto nome diverso o con titolo diverso o in altra piattaforma. È vero che il web non dimentica. Per questo è stato introdotto il concetto di diritto all’oblio.

L’anonimato in rete ha peggiorato la situazione?

Sì. Agire sul web è associato all’idea di anonimato e di impunità. La sensazione è che da dietro lo schermo si possa facilmente operare. Per questo aumentano i “leoni da tastiera”. Pensano di poter restare anonimi. Tuttavia, la differenza tra virtuale e reale non vale sempre. Ad esempio, se acquisti qualcosa online lo stai facendo davvero. Forse non insulteresti in faccia una persona, mentre sul web ti senti autorizzato a farlo. Ma un reato è sempre un reato.