Roma (NEV), 25 febbraio 2021 – Ilaria Valenzi è consulente legale della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). L’avv. Valenzi ha inoltre conseguito un dottorato di ricerca in autonomia individuale e autonomia collettiva. Questa è la terza e ultima parte dell’intervista in cui abbiamo approfondito con lei i temi della sicurezza informatica e delle discriminazioni.
Abbiamo visto, nelle precedenti puntate, che la questione dell’odio e dei reati informatici è una questione complessa. Il discorso è anche culturale e sociale. È difficile divulgare un “discorso d’amore”, in contrasto ai discorsi d’odio, un “love speech” anziché un “hate speech”. Alcuni timidi tentativi ci sono, ma siamo circondati dall’aggressività. Violenza, razzismo e sessismo dilagano in programmi televisivi, videogiochi, nelle pubblicità, nel marketing, nel giornalismo e nel dibattito politico e pubblico. La lotta sembra farsi impari. Cosa ne pensa? Come intraprendere una via della gentilezza?
Dal 2016 la Commissione europea ha istituito un gruppo di alto livello per la lotta contro il razzismo, la xenofobia e altre forme di intolleranza, cui partecipa anche l’Italia. Sono stati sottoscritti atti come il codice di condotta. Punire i reati è l’ultimo passo di un discorso che è, appunto, culturale.
Il codice di condotta è stato firmato da grandi colossi informatici quali Microsoft, Facebook, Twitter e YouTube. Quindi esiste un meccanismo di attivazione normativa che aiuta a creare un contorno di maggiore sicurezza giuridica rispetto al fenomeno e che consente di colpirlo in maniera più certa.
Quanto ai concetti di gentilezza e aggressività, siamo di fronte a un problema gravissimo. Ci siamo accorti, negli ultimi anni, di quanto l’odio sia esploso. E di quanto si siano fatti passi indietro, rispetto a quello che ritenevamo socialmente accettabile, o inaccettabile, collettivamente.
Come è accaduto, secondo lei, che l’odio dilagasse in questo modo?
Veniamo da un lungo periodo politico che ha soffiato sul fuoco, facendo dell’odio uno strumento di propaganda. Questo ha consentito un’apertura verso i più bassi istinti delle persone. Vuoi per emulazione, vuoi per un diffondersi generale del senso di impunità. Questa idea di impunità è legata al fatto che certi rappresentanti politici hanno legittimato certi comportamenti.
L’hate speech è aumentato, non solo rispetto alle migrazioni, ma anche rispetto ad altre categorie di persone, perché si è creato un atteggiamento mentale di legittimazione. Per cui chi è diverso è un target, un obiettivo, un bersaglio da colpire.
Cosa si può fare per contrastare l’odio online? E quali sono i meccanismi informatici sui quali possiamo agire?
Serve un intervento sociale e culturale, a livello anche di ricerca scientifica. È un livello che fatica ad emergere. Si tratta di un processo che studia le forme di contrasto all’odio, ad esempio tramite il controllo degli algoritmi razzisti. Tutti i nostri dati personali, i big data, confluiscono dentro trasmissioni di algoritmo che veicolano messaggi razzisti e xenofobi.
L’algoritmo di per sé è programmato a priori in modo non inclusivo.
Dobbiamo pretendere da tutti i colossi informatici un algoritmo inclusivo, interculturale, non sessista, non razzista. E bloccare a monte i messaggi di odio e non diffonderli.
Su quali altri piani è auspicabile intervenire affinché si sviluppi una maggiore coesione sociale?
È importantissimo un lavoro nelle scuole, nei luoghi di aggregazione sociale, dove le persone si mischiano. Spazi fertili, dove ci siano condivisione, formazione, progetti e diffusione di un pensiero altro, di un pensiero diverso. Nel nostro linguaggio e nella nostra vita deve entrare una narrazione fondata non sull’attacco al diverso, ma sull’individuazione di se stessi come esseri complessi, sfaccettati. Riconoscere se stessi e gli altri come elementi diversi fra loro permette alle persone di capire che l’altro, gli altri, come te, come noi, insomma ciascuno, ha la sua storia. Storie diverse, che devono emergere insieme, a dispetto dei contrasti che una narrazione unica ci racconta. La narrazione unica porta solo esclusione e supremazia.
Cosa dovrebbero fare le chiese?
Le chiese dovrebbero, dal mio punto di vista, lavorare in maniera sempre più forte sull’essere luoghi di accoglienza. Essere percepite dalle persone come luoghi sicuri. Luoghi dove ci si può esprimere con le proprie diversità.
Chiese che accolgono vuol dire accoglienza indiscriminata, intorno a una predicazione che sia sempre inclusiva.
In che modo la predicazione può essere più inclusiva?
Una predicazione deve essere inclusiva nel linguaggio, nel tipo di teologia che esprime, nelle letture della bibbia. Una chiesa inclusiva è dove si ascoltano messaggi diversi. Una chiesa che si oppone, con i suoi strumenti, alle narrazioni escludenti e razziste.
L’elemento più forte delle chiese è proprio quello della predicazione. Attraverso la lettura della Bibbia con gli occhi della diversità e della complessità.
Le chiese dovrebbero essere anche, secondo me, non solo luoghi di predicazione pura, ma anche di predicazione attraverso le azioni. Azioni che rafforzino l’advocacy su questi temi. Azioni che rappresentino messaggi sociali e che possano contaminare di gentilezza il mondo che ci è intorno.
Cosa possono fare i singoli credenti, in particolare dal punto di vista protestante?
La particolarità di essere minoranza sta anche nella forza di poter essere ostinatamente in senso contrario, diverso da quello che il mondo ci propone. Questo vale non solo per le chiese, ma anche per i singoli credenti; perché Dio ce lo chiede, a mio avviso.
Serve un impegno collettivo e personale. Bisogna lavorare sui propri pregiudizi, scardinarli, accettare se stessi con le proprie particolarità e accettare così quelle delle altre persone.
Per essere credenti inclusivi bisogna mettersi in discussione continuamente.