Trieste “protestante”. Città delle innumerevoli voci, frontiere e ferite

Dalle proteste dei portuali, passando per la storia delle minoranze, alle presenze multi-etniche e multi-religiose in città. Dalle recenti elezioni, alle tracce di tolleranza oltre i conflitti. 

Foto wiki commons. Il porto di Trieste con la bora

Roma (NEV), 20 ottobre 2021 – Trieste. La protesta dei portuali, quella dei movimenti per la dignità del lavoro, contro il precariato e contro l’uso discriminatorio del green pass, si intreccia all’atmosfera del post-elezioni, con il sindaco Roberto Dipiazza al suo quarto mandato. A Trieste ha votato circa il 40% degli aventi diritto. Fra i votanti, poco più del 51% ha scelto il candidato del centrodestra.

Le proteste dei portuali sono raccontate in modo contraddittorio dai media. È difficile scattare una fotografia nitida. Cittadini pacifici raccolti in sit-in. Cittadini assenti e presenti. Persone calme o esasperate. E poi sgomberi, idranti, appelli alla calma e alla collaborazione con le forze dell’ordine. Comunicati di solidarietà. Accuse reciproche tra gruppi e istituzioni. Cambi di strategia.

Le proteste dei portuali si inseriscono in un contesto complesso. Per il Trattato di Londra del 1954, il porto internazionale non sarebbe sotto giurisdizione italiana. Il Porto Franco sembra essere terra di tutti, ma anche terra di nessuno.

Inoltre, a differenza di quanto accade per i cittadini di San Marino immunizzati con Sputnik, la cui validità del pass vaccinale è estesa fino al 31 dicembre 2021, non vale la stessa cosa per i lavoratori provenienti, ad esempio, da Slovenia e Croazia. Una deroga al green pass fatta “per pochi”, ma non “per tutti”.

Le polarizzazioni in corso a Trieste, ma non solo a Trieste, esprimono una difficoltà collettiva e politica. Minoranze e maggioranze, un po’ ovunque, sembra non riescano a fare il salto di qualità del reciproco ascolto, aldilà delle questioni sanitarie ed emergenziali. In questo momento storico infatti, pare prevalgano i discorsi di odio, in un “tutti contro tutti” velenoso e miope.

Un momento “storico” che sussiste dal 1919

Trieste è terra di contraddizioni e forze centripete. È la città che ha visto nelle sue strade i passi e gli sguardi di Italo Svevo, James Joyce, Stendhal e Umberto Saba. Il profondo scontento dei precari è uno degli aspetti della questione. Ma questo momento “storico” sussiste dal 1919. Il pastore Emanuele Fiume, triestino, afferma: “La costituzione del porto franco del XVIII secolo ha trasformato il piccolo borgo di pescatori in uno degli empori commerciali più importanti d’Europa, seconda solo a Londra come fatturato di assicurazioni e con un reddito pro capite più alto di New York nel primo decennio del Novecento. Nella città multiculturale e multireligiosa che si era creata, con lo stesso dialetto riformato a ‘lingua franca’, comprensibile da Rovigo alle Bocche di Cattaro, agli inizi del Novecento aumentò la tensione tra l’elemento italofono della città e gli sloveni dei sobborghi (che facevano un buon 40% della popolazione cittadina). La parte italiana della città era politicamente divisa tra liberalnazionali, difensori dell’identità italiana e massoni, e socialisti, internazionalisti e contrari a un conflitto tra le componenti etniche cittadine. Insomma, Trieste è una città dalle innumerevoli ferite mal incerottate che nessuno ha voluto curare. L’apertura alle terre che scottano di tutto l’est europeo”.

Trieste è, anche, la culla di un sentimento pacifista e internazionalista (quello della vecchia sinistra austroungarica) che durante la guerra porta il giornale “Il lavoratore” fino nelle trincee. Ma è anche la città dove poco prima del 2000 la gente litiga all’inaugurazione del monumento alla principessa Sissi davanti alla stazione.

Minoranze etniche e crisi economica

Facciamo un passo indietro. Dopo l’occupazione italiana nel 1919, migliaia di triestini fedeli all’Imperatore emigrarono in Austria. La politica anti-slava precedette il fascismo: promesse non mantenute riguardo alla costruzione di scuole e università in lingua slovena. Italianizzazione forzata dei cognomi. Chiusura delle scuole. Proibizione di parlare sloveno in pubblico. Proibizione di catechismo e di predicazione in sloveno nelle chiese.

Nella Seconda guerra mondiale la città divenne territorio del Reich. Fu costruito un campo di concentramento in piena città, tra i macelli comunali e il vecchio stadio. Seguì l’occupazione del IX Corpo d’armata dell’esercito di liberazione della Jugoslavia, per una quarantina di giorni. In quel tempo circa 500 triestini (su 250.000 abitanti) furono infoibati come fascisti o collaborazionisti. Poi, 9 anni di governo militare alleato. La crisi economica. L’arrivo dei profughi istriani.

Nel 1954 la città tornò sotto la sovranità italiana. La crisi economica non era finita, le grandi fabbriche legate al porto chiudevano, la destra continuava ad agitare il pericolo del “bilinguismo”. In un secolo, il primo porto commerciale dell’Adriatico, ricco e multiculturale, si trasforma profondamente. Siamo, ancora, di fronte ad incapacità e lentezze nel riconoscimento dei diritti alle minoranze etniche.

Trieste e la tolleranza

Tuttavia, Trieste è anche la città della tolleranza. Un documentario degli anni ‘90 di Gianna Urizio, triestina, per anni regista della rubrica su Rai2 “Protestantesimo”, racconta attraverso le diverse figure che attraversano Trieste nella storia alcune caratteristiche di questa città poliedrica. Fondamentale quella del pastore valdese Giorgio Girardet, a cui si deve peraltro il primo culto radio in Italia. “L’espansione della chiesa valdese nel dopo guerra si deve proprio a lui”, racconta Urizio, che ricorda come Girardet sia stato un pioniere evangelico, con le sue conferenze pubbliche e la sua opera di divulgazione ed evangelizzazione

La storia del protestantesimo a Trieste vede una tappa fondamentale nel 1781, quando Giuseppe II promulgò l’Editto di Tolleranza. L’Editto incentivò l’immigrazione nel porto adriatico di minoranze religiose che contribuirono a costruire la Trieste multietnica e multiconfessionale. La tolleranza si esprime qui, come nei balcani, su basi etniche. I mestieri si differenziano per origine: avvocati, ingegneri, medici, ginecologi, armatori, commercianti di caffè e cacao. Mentre si intrecciano le storie di italiani, istriani, veneti, sloveni, ma anche greci, serbi e croati, nasce in seno alle chiese protestanti di Trieste, nel secolo scorso, un Gruppo giovanile internazionale.

A Trieste, infatti, la storia della chiesa si intreccia con la storia pubblica. La città multietnica ospita gruppi diversi, che si costruiscono la loro chiesa. I luterani di Trieste ne avevano una piccola nel ghetto. Successivamente, ne costruirono una neo-gotica nel nuovo centro della città. Vicino al porto, c’era una chiesa battista, confluita poi, in parte, nella chiesa metodista. Poi, c’era la confessione elvetica (in origine, riformati zwingliani magiari, provenienti da Ungheria, Austria e Svizzera), che acquistarono una chiesa sconsacrata, proprio a fianco di quella barocca dove si celebrava la messa cattolica.

Il pastore che ha raccolto le comunità metodiste e valdesi di Trieste presso Scala Giganti, dopo 10 anni di pastorato a Palermo, è Peter Ciaccio.

Trieste laica, ecumenica, multiculturale, protestante… Trieste “triestina”

Per conoscere alcune delle caratteristiche delle comunità protestanti di Trieste abbiamo chiesto, infine, a Dieter Kampen (pastore a Trieste dal 1999 al 2020), quali relazioni ecumeniche e istituzionali ha avuto modo di osservare nel corso del suo lavoro. “Trieste è innanzitutto una città laica, cosa che non stupisce visto che è cresciuta con il porto franco in pieno regime illuminista – spiega Kampen –. Anche le chiese evangeliche e ortodosse sono nate grazie alle iniziative dei commercianti. Motivo per cui le loro chiese si trovano in pieno centro con edifici impressionanti. I pastori hanno quindi anche un ruolo istituzionale e vengono invitati a numerose iniziative pubbliche. Certo, oggi le chiese non hanno più il peso di una volta e la loro presenza viene vista più come attrazione turistica, tuttavia costituiscono parte integrante dell’immaginario di una Trieste laica e multiculturale. Trieste è caratterizzata anche da un’alta densità di associazioni culturali di vario tipo, tra cui quelle che promuovono le proprie radici nazionali. Nei miei vent’anni di pastorato la lingua tedesca è quasi del tutto sparita. Lo sloveno si mantiene ancora, ma nascono nuovi gruppi numerosi come la Comunità ortodossa romena. Forti sono anche movimenti para-religiosi come antroposofia e occultismo di varia provenienza. Se nel dopoguerra la città era politicamente caratterizzata dalle tensioni nazionali e culturali, oggi invece sono le chiese e istituzioni culturali, anche di tipo nazionale, che si oppongono insieme al dilagare di una nuova destra italiana che a Trieste trova terreno fertile in una minoranza significativa. Nel passato e anche nel presente la popolazione triestina ha visto movimenti migratori importanti, ma nonostante ciò ha mantenuto una sua identità propria che non è del tutto italiana e neanche più austriaca, ma appunto triestina”.

Trieste del porto franco, Trieste del dialogo

Oltre le identità, nei suoi mille volti e nei suoi mille confini, Trieste “protestante”, nel senso religioso del termine in questo caso, potrebbe essere di nuovo pioniera di dialogo e di apertura. Trieste del porto franco può essere una città che apre le sue porte, che ascolta e propone. Per farlo, tuttavia, avrebbe bisogno di dare voce anche a quel 60% di aventi diritto che hanno scelto di restare a casa e non votare. Non è dato sapere, di questo 60%, quante persone siano intenzionate a esprimersi, a prescindere dalle bandiere che stanno sventolando nelle piazze italiane in queste ultime settimane.