Vedere Shatila

La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). O dalle volontarie e dai volontari che accompagnano per periodi più o meno lunghi il percorso di MH. Oggi “Lo sguardo” proviene dal Libano ed è stato scritto dalla coordinatrice Marta Bernardini

Roma (NEV), 29 marzo 2022 – Ha un cappellino rosa con delle piccole renne grigie. I fiocchetti le cadono lungo le orecchie, lasciando intravedere dei capelli scuri e folti. Mi guarda timidamente, nascondendosi dietro il velo della mamma, anche lei seduta nella stanza di fronte al medico. Ha sei anni e dalla conversazione, che si svolge in arabo e in inglese, capisco che la bambina dal cappellino rosa ha qualche ritardo nello sviluppo, forse per un trauma difficile da identificare in un primo colloquio. “E dove vivete?” – chiede il dottor Luciano Griso. “Shatila”, risponde la donna, che dimostra più anni di quelli che ha. “I casi peggiori vengono sempre da lì”, dice il medico girandosi verso di me. È fine marzo ma sembra ancora inverno. Mentre siamo nella clinica del progetto Mediterranean Hope, in collaborazione con Nation Station, fuori c’è un flebile sole ma il cielo anticipa pioggia. Nell’altra stanza i pazienti aspettano di essere visitati. Siamo nel quartiere di Geitawi, a Beirut, ma le persone vengono anche da zone più distanti per farsi vistare gratuitamente dal gruppo di medici, specialiste, infermiere, mediatori che prestano il loro servizio presso questa piccola ma ben organizzata clinica. Al piano di sopra sento risa e passi svelti, si sta svolgendo il laboratorio di arte terapia per bambini e bambine.

Nella stanza si alternano storie, di isolamento, privazioni, violenze difficili da raccontare. “Questa donna, in Iraq, non ha sopportato di coprire le truffe dei dirigenti della banca in cui lavorava. Ha denunciato e ha pagato con l’incarcerazione, la violenza e anche lo stupro” – apprendo dal dottor Griso che, con l’aiuto dell’infermiera Liliane e l’operatore Ayman prosegue determinato nella mattinata di visite. Solo un caffè scuro e un pezzettino di cioccolato come veloce interruzione tra il susseguirsi di storie.

Esce la bambina con il cappellino rosa, dopo un divertente gioco di sguardi e sorrisi da sotto la mascherina, per fare posto al fratello poco più grande. “E’ molto isolato, non fa amicizia ed è sempre nervoso”. Non so immaginare, ancora, come sia la vita nel campo di Shatila. Ci andremo domani e forse darò uno sfondo ad alcuni di questi incontri, nella mia prima mattina libanese. “Ti piacerebbe giocare a basket in una squadra?” – titubanza da parte del ragazzino – “Domani potremmo parlarne con Majdi” – prosegue il dottore rivolgendosi a Irene, l’altra operatrice che segue il progetto. Qualche altra frase in arabo, un sorriso timido come quello della sorellina, e il bambino fa sì con la testa.

La prima cosa che mi colpisce del campo di Shatila è il cielo. Anche oggi forse ci risparmierà dalla pioggia, ma lo sguardo viene disturbato da una rete di fili, tubi e cavi di ogni tipo. “A spider net” mi dirà Majdi più tardi. Una ragnatela che ci accompagnerà per tutto il giro nel campo. Il nostro team composto da dottore, operatore e infermiera si sistema nella stanza di Medici Senza Frontiere, con cui Mediterranean Hope, programma migranti e rifugiati della FCEI, collabora da anni nel campo di Shatila. Capirò tra poco che qui è un mondo a parte, e uscirvi anche solo per una visita medica può essere molto complicato.

Nonostante le molte ore senza elettricità in tutta la città, la stanza è illuminata e ben riscaldata. Majdi mi aspetta fuori, il gruppo ha già fatto le prime visite. Una bambina dallo sguardo dolcissimo ha appena avuto una forte crisi epilettica davanti ai nostri occhi. Le “cose” mediche non sono mai state il mio forte, osservo in silenzio, seduta sul divanetto verde oliva. Quel colore mi fa venire in mente lo zaatar, il condimento fatto di origano, sesamo e spezie che insieme all’olio condisce il manaqish, il pane libanese che mi sta accompagnando in questo viaggio. La bambina sta meglio, ma so già cosa mi dirà il dottor Griso più tardi, “Anche se curassimo tutte le persone del campo, continuando a vivere in queste condizioni non cambierebbe niente”. Con l’arrivo del caffè scuro, e il cioccolato fondente che esce dallo zaino di Ayman, raggiungo Majdi.

Saliamo su delle ripide scale, dico a me stessa di stare attenta, conoscendo la mia capacità di scivolare anche da ferma. Ci sediamo intorno a un tavolo da ping-pong blu, arriva il tè caldo e dei biscottini deliziosi ai quali, ovviamente, non posso sottrarmi. Majdi inizia a raccontare del progetto “Basket Beats Borders” e di come lo sport, soprattutto in un posto come Shatila, abbia un importante effetto sulla comunità e sulle persone più giovani. Majdi è fondatore e coach della squadra femminile che, attraverso il basket, ha potuto conquistarsi uno spazio di libertà e viaggiare in tutta Europa per giocare. “It’s time to beat borders and play for freedom” – si legge sulla loro pagina. Lo sport come opportunità per uscire da quel mondo a parte, per avere delle regole, degli obiettivi. Per alcuni è l’unica occasione per stare lontani da armi, bande e dalla totale assenza di un futuro.

Majdi mi racconta la sua storia di Shatila. “Il campo è iniziato con delle tende, poi sono diventate case a uno, due piani. Oggi ci sono case a sei piani. Quando le persone hanno capito che non se ne sarebbero mai andate hanno iniziato a costruire”. Questa è l’immagine che mi rimane più impressa. Generazioni che si susseguono, che crescono, in un continuo ripiegarsi su sé stesse. Penso che la parola “campo” infatti mi stride da quando sono arrivata. È un quartiere a tutti gli effetti; le strade con i negozietti, frutta, verdura, dolciumi, o cose di qualsiasi altro tipo, per un attimo mi catapultano al mercato di Ballarò a Palermo, forse più per un richiamo emotivo che per una reale somiglianza.

 “Ormai non ci sono più solo palestinesi, la metà delle persone è siriana”. Majdi mi dice che nella mente delle persone c’è l’idea un giorno di poter ritornare, ma si sa che non accadrà mai. “Questo non è il mio paese. Ma neanche quello, dove non ho mai davvero vissuto. La mia casa non è questa, né quella”. Più tardi, in macchina, il mio collega Ayman mi parlerà di mental displacement.

Saliamo di un piano e vedo la palestra con i canestri. Anche se Majdi mi indica gli angoli sul soffitto mangiati da muffa e salsedine, quello è uno spazio prezioso per ragazzi e ragazze del quartiere; stanno pensando di fare anche un cineforum. Con la stessa attenzione con la quale sono salita, ripercorro le scale e torno nel trambusto della strada. Majdi propone di accompagnarmi per un giro nel quartiere. Non desideravo altro, dopo che più persone mi avevano detto di quanto era facile perdersi in quelle stradine. Ogni muro è un pezzo di storia, mi racconta dei pericolosi cavi scoperti dell’elettricità, ad altezza bambino, delle cisterne per l’acqua dolce che sono stata danneggiate ancor prima di funzionare, dell’egoismo di chi costruisce ancora piani senza pensare che quelle altezze tolgono luce e sole, facendo aumentare umidità e corrosione. Salutiamo una signora che si affaccia a una finestrella, il velo scuro e un simpatico sorriso sdentato. “Il figlio, con la Sindrome di Down, è molto affezionato al dottor Luciano” – mi dice Majdi. Camminando tra i muri, come in un labirinto senza fine, sento odori contrastanti, dolciastri e acri. Bambini e bambine ogni tanto appaiono all’improvviso, chi con la cartella, chi con delle ciabattine improvvisate. Un signore è seduto su una sedia di plastica in una specie di cortile interno, fatto di terra e nient’altro. Ci saluta e mi cade l’occhio sulla persona accanto a lui, che tiene un fucile sulle ginocchia sorridendo amichevolmente. Solo dopo mi renderò conto che è la prima volta che vedo, dal vivo, un’arma in mano a un civile. Majdi si arrabbia per l’egoismo di chi abita quel luogo, dell’incapacità di pensare ai bisogni della comunità, mi parla di corruzione, di come Shatila spesso venga usata dalle stesse istituzioni o polizia per giustificare criminalità e degrado. Sono grata al mio Caronte, generoso di parole e di pensieri. Quando arriviamo davanti alla stanza di MSF mi rendo conto di essere disorientata e straripante di emozioni. Prima di salutarci Majdi mi dice di aspettare, mi indica casa sua – mi ricorda quelle piccole abitazioni mai finite che si vedono i molti paesini del sud Italia. Scompare per qualche minuto e riappare. In un sacchetto una felpa nera, una piccola immagine cucita davanti di una ragazzina in tuta rossa, il velo e una palla in mano con la scritta “Basket Beats Borders”. Quel dono mi fa felice in un modo semplice e inaspettato, tanto che non trattengo un abbraccio a Majdi, in mezzo alla strada. Lo ringrazio, ci abiterò dentro quella felpa nei prossimi giorni, già lo so.

La sera decido di cercare qualche informazione in più su Shatila. Immediatamente mi imbatto nel famoso articolo di Robert Fisk “Ce lo dissero le mosche”, sulla strage di Sabra e Shatila del 1982. Un racconto, straziante, del massacro di migliaia di palestinesi. Quelle parole, maestralmente scritte, mi fanno ripercorrere le stradine del mattino, che ora mi sembrano in bianco e nero.

Generazioni che si susseguono, che crescono, in un continuo ripiegarsi su sé stesse. Mi addormento nella mia nuova, preziosa, felpa nera.