Nel testo biblico che parla di Caino e Abele, è interessante – sottolinea Garrone – il tema della “Voce del sangue di tuo fratello”. In lingua ebraica, letteralmente, si parla in realtà di “sangui”, al plurale, forse in chiave rafforzativa, e sicuramente nel senso di “sangue versato”. I “sangui” di Abele “gridano al cielo. Si tratta di uno spunto inquietante. Lo sappiamo – osserva ancora Garrone -. Oggi il sangue di Abele è esibito in diretta. Lo vediamo quotidianamente nei telegiornali e sulla stampa. A volte più pudicamente, ma più spesso no. Il paradosso riguarda la domanda: che emozioni provoca in noi questo odierno grido? Il rischio è quello dell’assuefazione, che è sì una reazione di difesa, ma rischia di non farci comprendere la portata di questo grido”. Sulla colpa di Caino, ancora, dice: “Se essa è troppo grande, un lettore Cristiano potrebbe dire che Dio può ‘alzare’ il peccato. Caino non se ne è mai andato, e nemmeno Abele. Il vero problema siamo noi che non siamo, mediamente, né Caino né Abele, in quanto non abbiamo ucciso nessuno, e non siamo torturati o sterminati. Dobbiamo capire come stare nel mondo responsabilmente, fra i carnefici e le vittime. Siamo in questa zona intermedia, che potremmo definire una zona grigia, dove però si trova il rischio della shizofrenia, come quella che nella Shoah ha portato all’atrocità dell’antisemitismo nazista. E dove contemporanemaente c’è stato chi si è fatto ammazzare per contrastarlo e chi ha invece condiviso le misure antiebraiche. Stiamo in questo timore di poter diventare Caino o Abele. Come cristiani facciamo una retorica di Abele, come spinti da una sorta di attrazione per le vittime. Se sei vittima, sei buono. Ma se quando Caino si avvicina ad Abele, Abele si girasse, e scampasse, o si vendicasse, non sarebbe più Abele. Così accade oggi, nei conflitti in corso, nelle migrazioni. Non possiamo risolvere la questione attraverso le dicotomie o senza riconoscere che siamo in mezzo alle ambiguità del mondo”.
Yassine Lafram,
Presidente dell’Unione delle comunità islamiche in Italia (UCOII), ha parlato di dialogo come esperienza, e ha ribadito l’importanza dell’incontro, aldilà delle divergenze, nella chiarezza delle rispettive posizioni. “Se Dio avesse voluto fare di noi un’unica comunità lo avrebbe fatto, invece ci ha fatti diversi – ha detto citando il Corano -. Dio ha creato Popoli e tribù affinché ‘vi conosceste’, è scritto”. Lafram ha anche sottolineato l’esigenza di “rendere il dialogo pandemico, non solo in ambito religioso, ma anche portandolo altrove, dove non si ritiene necessario, dove sembra anomalo. Ad esempio in un festival cinematografico come il TMFF”. Lafram ha inoltre ricordato come, nel Corano, il primo peccato compiuto dall’umanità è quello di satana. Dio chiede ad Adamo e a satana di costernarsi, quest’ultimo si rifiuta dicendo che essendo venuto dal fuoco è meglio della terra, dell’argilla di cui è fatto Adamo. “Un peccato di superbia, quello di sentirsi migliori degli altri. Poi – prosegue Lafram –
viene il primo crimine dell’umanità, nella prima famiglia dell’umanità, e questo crimine avviene tra fratelli”. Ci sono diverse opinioni e interpretazioni degli esegeti, ma nel testo successivo, quando si parla dei figli di Adamo, il Corano riconosce la sacralità della vita umana.
Il rabbino Benedetto Carucci Viterbi nel suo intervento ha parlato dei legami di fratellanza nella Bibbia, da Ismaele e Isacco, a Esaù e Giacobbe, a Giuseppe e suoi fratelli. Si tratta di “rapporti concreti, di una umanità che nasce da un fratricidio”. Bene e male, nel testo come nell’esegesi, sono difficilmente districabili per l’ebraismo. “In alcune interpretazioni ebraiche Caino è tuttavia il primo essere umano che si pente. Quando dice ‘il mio peccato è troppo pesante da sopportare (?)’, come domanda o come affermazione, si può dire che Dio sia in grado di perdonare anche quella colpa. Si tratta di un verso chiave. Una sorta di confessione”. Relegare Caino solo nella sfera del male è una semplificazione, sostiene il rabbino. Inoltre, quando il padre interroga Caino, il quale dice “mi sono pentito e ho trovato un accordo. Una mediazione”, Adamo realizza che è possibile, e dice che cercherà di pentirsi a sua volta. “Caino insegna al padre. Il padre segue ciò che il figlio insegna” ha detto Carucci Viterbi. “Conoscere significa mescolare – ha aggiunto, citando Adamo ed Eva i quali, mescolando bene e male, anche nella metafora dell’unione, hanno introiettato entrambi -. Costitutivamente l’essere umano è quindi fatto di due istinti. In noi, ci sono Caino e Abele insieme”.
Svamini Shuddhananda Ghiri, monaca induista e referente per l’Unione induista italiana (UII) ha esordito parlando di come questa storia di Caino e Abele possa essere percepita come suggestione e come provocazione. Trovando una “similitudine simbolica” che, senza forzare parallelismi, indica un dialogo possibile. Si tratta della figura dei figli di Prajapati che dà vita all’intera manifestazione vivente. “I luminosi e gli oscuri, tradotto dal sanscrito. Rappresentano le forze buone e le forze egoistiche. Nell’induiismo non c’è una parola che indichi il male. Dove si parla di male si parla in realtà dell’affermazione di una individualità contro l’empatia. Dire che siamo tutti buoni o cattivi è una semplificazione”. Per Shuddhananda Ghiri l’umanità vive in un “anelito costante a tornare all’uno, all’assoluto. La dualità che caratterizza l’umana esistenza sulla terra è quella stessa con cui facciamo i conti in una continua lotta”. Un altro esempio di questa dualità che cerca di integrarsi è presente nei miti, nelle scritture e nelle rappresentazioni iconografiche. “La figura femminile di Durga, colei che è difficile da distruggere, e porta in sé non solo il materno che accoglie, ma anche la forma del tridente che uccide il bufalo, una specie di demone che ha come caratteristica quella di cambiare forma continuamente. Simbolicamente rappresenta le nostre menti e pulsioni. In quanto esseri umani siamo spinti ai mali capitali, quali l’insoddisfazione nel micro e nel macro cosmo sociale, e questo è alla base del conflitto. Come si legge nei Veda, dobbiamo riconoscere questo aspetto, dentro e fuori noi stessi”. Nella tradizione indiana e induista in particolare, ha spiegato la religiosa, non c’è una parola per dire “demone”, in senso manicheista o come realtà ontologica. “La parola Dharma, nel senso di armonia, di bene comune e giustizia, ha come opposto a-Dharma, in senso privativo. Questo segna la polarità, come quella fra attrazione e repulsione. Intendiamo il duale come una sfida da vincere per raggiungere unità. Questo è un concetto nel quale le religioni si possono ritrovare” ha concluso Shuddhananda Ghiri.
Guglielmo Doryu Cappelli del Centro Zen Anshin e membro dell’Unione buddhista italiana (UBI), collegato da remoto, ha ribadito il valore della “mescolanza”. Anche nel buddismo non c’è un termine per indicare il “male”, ma c’è un termine che indica situazioni non salutari. “Per sapere cosa fare per evitare azioni malvagie – ha detto Doryu Cappelli -, ci affidiamo alle religioni, in cerca di risposte, o di precise vie spirituali. Come se volessimo iscriverci a un circolo, per avere una identità precisa e per identificarci in certi percorsi. Anche nel buddismo abbiamo dei precetti, che cerchiamo di seguire, come in altre religioni. Tuttavia, non c’è niente di così sicuro e definito. A volte il male viene dal tentativo di sconfiggere altro male. Non c’è una idea assoluta di ‘male’ e ‘bene’. Prendiamo il racconto zen della roccia blu, caso 41. Esso dice ‘Dove il giusto e lo sbagliato si fondono insieme, nemmeno i saggi possono saperlo; […] nemmeno i Buddha possono saperlo.[…] Egli cammina sul ghiaccio sottile e corre sulla lama di una spada’. Anche nei discorsi di Buddha si trovano aforismi semplici, come ‘Smetti di fare male, pratica il bene, coltiva il bene, purifica il cuore’. A volte per farlo dobbiamo andare contro certe indicazioni, andare aldilà delle dicotomie. Il puro entra nella terra senza sentieri in una dimensione che sta oltre. Ma cosa vuol dire purezza? Minimizzare male?” ha proseguito Doryu Cappelli, interrogandosi su come evitare di assolutizzare il male, su come coglierne l’impermanenza e su come analizzare le interconnessioni. E ha concluso con un invito a risvegliarsi nello scambio di culture e geografie.
Il convegno si è aperto con i saluti di Davide Milani (presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo che organizza il Tertio Millennio Film Fest) e di Giuliano Savina (direttore dell’Ufficio per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Conferenza episcopale italiana e coordinatore del Tavolo del dialogo interreligioso che ha promosso il convegno e scelto il tema del festival).