Paolo Naso: “La libertà religiosa non è un tema di parte. È il cuore della democrazia”

L’Agenzia NEV inaugura un ciclo di interviste per riprendere i temi del convegno “Pluralismo religioso, integralismi, democrazie”, recentemente tenutosi a Roma. Iniziamo questo "Speciale libertà religiosa" insieme a Paolo Naso

Immagine generata con GPT-3, modello di generazione del linguaggio su larga scala di OpenAI - openai.com (E.R./NEV)

Roma (NEV), 24 febbraio 2023 – L’Agenzia NEV inaugura un ciclo di interviste per riprendere i temi del convegno “Pluralismo religioso, integralismi, democrazie”, recentemente tenutosi a Roma. Il convegno è stato promosso dalla Fondazione Lelio e Lisli Basso, dalla Rivista e Centro Studi Confronti, dalla Biblioteca Centrale Giuridica, dalla rivista Questione Giustizia e dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI).

Iniziamo con Paolo Naso, coordinatore della Commissione Studi Dialogo Integrazione della FCEI, consulente per i rapporti istituzionali del programma rifugiati e migranti FCEI/Mediterranean Hope, nonché docente presso l’Università Sapienza e membro del Comitato scientifico del Centro Studi Confronti.

Perché un convegno sul pluralismo e la libertà religiosa?

È presto detto: rilanciare un tema che da anni è stato eluso dal dibattito parlamentare, schiacciato da altre priorità e interessi. In questo senso è stata un’operazione coraggiosa, di cui bisogna dare merito ai promotori, in primis alla Fondazione Basso e alla rivista Confronti, che hanno avuto la forza di rilanciare il confronto su un tema certamente complesso ma sempre più urgente.

Perché urgente? La libertà religiosa è garantita.

L’urgenza sta nel fatto che in pochi decenni il profilo religioso dell’Italia è cambiato come mai si sarebbe potuto immaginare e il “fattore R” della religione ha acquistato una crescente rilevanza nelle dinamiche sociali e culturali di un paese multiculturale quale l’Italia è oggettivamente diventato. E non si può governare un fenomeno nuovo con strumenti vecchi e arrugginiti come la legislazione di epoca fascista sui “culti ammessi”: quella normativa tuttora vigente, sin dal titolo, esprime la sua intenzione discriminatoria e selettiva, e ancora oggi distingue tra confessioni giuridicamente riconosciute e altre (la maggioranza) che non lo sono. È una legge che decide quali ministri di culto e di quali confessioni hanno libero accesso negli spazi protetti (carceri, ospedali, centri per gli immigrati, residenza per anziani) e quali no. È la legge che, non tutelando l’edilizia di culto, crea insormontabili difficoltà a varie comunità che subiscono una limitazione del diritto costituzionale a esercitare il culto in privato e in pubblico (art. 19). In assenza di norme stringenti su questa materia, alcune comunità di fede sono private del diritto fondamentale a riunirsi in luoghi dignitosi e riconosciuti legalmente. “No, la moschea no” è solo la più virulenta espressione di una intolleranza alla diversità religiose che, solo qualche giorno fa a Tortona, si è espressa nell’incendio di un centro islamico. Ma se questo è razzismo islamofobico, su un altro piano di ordinaria convivenza multireligiosa, è normale che a Milano, città europea e interculturale per eccellenza, non ci sia una moschea degna di questo nome? E perché le chiese pentecostali devono accontentarsi di sedi improbabili e periferiche? O che decine di confessioni religiose che dispongono di adeguati locali, non possano ottenerne la conversione d’uso a finalità di culto?

E le intese previste dall’art. 8 della Costituzione?

Sì, ci sono, ma “coprono” soltanto il 10% del totale dei non cattolici che ne avrebbero diritto: tutti insieme non superano le cinquecentomila persone (dati IDOS Confronti del 2022): valdesi e metodisti, battisti, luterani ed anglicani per il protestantesimo storico; avventisti, pentecostali (delle Assemblee di Dio e della chiesa apostolica) per l’area evangelica in senso lato; ebrei; buddhisti (dell’Unione buddhista italiana e della Soka Gakkai); ortodossi greci, induisti e mormoni. Privi di intesa, invece i musulmani (oltre due milioni di persone, tra i quali un crescente numero di italiani), gli ortodossi rumeni (quasi due milioni), i testimoni di Geova (oltre 400.000, in massima parte italiani), i sikh (circa 100.000), un numero crescente di evangelici indipendenti (300.000), altre comunità di fede per almeno 100.000 presenze. È questo il limite dell’art. 8: non la sua sostanza giuridica, ma la sua scarsa e debole attuazione, centellinata con criteri non sempre comprensibili, al punto da apparire discrezionali: questo sì, quello no.

Detto sinceramente, crede che esistano le condizioni politiche perché questo Parlamento possa mettere mano a un provvedimento così complicato e controverso come una legge sulla libertà religiosa e di coscienza?

Dal Dopoguerra in poi, il dibattito sulla libertà religiosa è stato il campo di battaglia di contrapposti eserciti ideologici: cattolici contro laici, credenti contro non credenti, destra contro sinistra, occidentalisti opposti ai multiculturalisti. È giunto il tempo di una tregua, anzi di una pacificazione su un tema che, oltre che al cuore della democrazia liberale, si pone al centro di tante vicende sia in Italia che nel mondo. Su un tema di alto profilo giuridico e costituzionale come questo, così come è successo in altri momenti della vita politica italiana, è essenziale che il Parlamento deliberi ad ampia maggioranza. La sfida è quella del superamento delle logiche di parte per assumere la tutela della libertà religiosa e di coscienza – anche chi non crede o crede in modo non convenzionale ha i suoi diritti e deve essere riconosciuto e tutelato – come questione centrale di universale rilievo democratico. Rinunciando al politichese dei “tempi che non sono maturi” o delle “altre priorità”, esponenti di varie forze politiche – di governo e di opposizione – si sono dichiarati disponibili ad aprire il cantiere sul tema. A costo di apparire ingenui, è doveroso dare credito alle aperture che abbiamo registrato che, ritengo, vadano prese molto sul serio. Non soltanto per attenzione alle minoranze, ma per la qualità della Repubblica.