Venerdì santo: speranza e devozione

"Com’è guardare Gesù dal punto di vista della sua morte? Non tanto per risolvere la questione agli alti livelli teologici, interrogandoci sul significato della morte sulla croce del Figlio di Dio. No, ma dal punto di vista di noi umani di fronte alla morte".

Foto pxfuel

Roma (NEV), 7 aprile 2023 – Pubblichiamo il testo della predicazione del pastore Raffaele Volpe andata in onda questa mattina su RAI Radio1 nella puntata speciale di Venerdì santo del “Culto evangelico“. Il pastore ci accompagna in un percorso fino al sepolcro di Gesù, sigillato da una pietra inamovibile, simbolo del limite invalicabile della speranza e della devozione umana.


Passato il sabato, Maria Maddalena, Maria, madre di Giacomo, e Salome comprarono degli aromi per andare a ungere Gesù. La mattina del primo giorno della settimana, molto presto, vennero al sepolcro al levar del sole. E dicevano tra di loro: Chi ci rotolerà la pietra dall’apertura del sepolcro?“, (Marco 16: 1-3a).


Una mia cara amica, qualche tempo fa, mi ha detto, senza tanti giri di parole: “Come mai, voi pastori, predicate così poco sulla morte?“. Non tanto sulla morte in senso generico, ma sulla morte, quella vera, quella che ti tocca, di un tuo caro, ad esempio. La morte che, come diceva lo scrittore-poeta Cesare Pavese “ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo“.

Il pastore Raffaele Volpe

Quando giunsi all’Ospedale pediatrico “Anna Meyer” di Firenze per un incontro sulla malattia e la spiritualità, mi sentivo le spalle coperte dall’annuncio della risurrezione, ma non ero davvero preparato a confrontarmi con storie di bambini e ragazze malati di tumore. Come Niccolò che aveva una leucemia fulminante e, dopo una notte travagliata nel reparto dell’Ospedale, la mattina successiva morì tra le braccia della madre. E le parole della madre che il medico di Niccolò condivise con noi non mi hanno più lasciato: “Davvero la vita è un mistero! Ma se noi non entriamo e non ci caliamo dentro questo mistero, non riusciremo mai a dare un senso alla vita”.

E che dire della sofferenza di Lorenzo, appena sedicenne, che si era rinchiuso in un silenzio irraggiungibile. Chiuso nelle sue cuffie e avvolto dal suo cappuccio nero aveva tagliato i ponti con tutti, restava solo il suo sguardo perso nel vuoto. Lo stesso medico di Niccolò ci raccontò anche di Lorenzo, della sua malattia inguaribile e della sua sofferenza e ci disse: “Il mutismo di Lorenzo mi ha insegnato che la sofferenza deve essere condivisa per essere, non superata, almeno accolta. La sofferenza non ha un perché, non è possibile capirla, ancor meno quando riguarda un bambino, ma possiamo imparare a provare a comprenderla, proprio nel senso di prenderla insieme, possiamo farcene carico insieme, possiamo viverla standoci accanto l’uno con l’altro”.

E così fu con Chiara, diciottenne, anche per lei la sua malattia non le avrebbe lasciato alcuna possibilità di guarigione, ma aveva deciso che avrebbe lasciato questa vita con un sorriso sulle labbra. Si prefisse quel che Paolo definì una speranza contro speranza e, infatti, la sua speranza divenne quel piccolo progetto della sua vita: morire con il sorriso. Il medico di Niccolò, di Lorenzo, di Chiara e di tanti altri ci raccontò del sorriso di Chiara con queste parole: “Chiara ci ha lasciato, ma ci ha lasciato dolcemente, proprio con il sorriso come desiderava. Mi piace sottolineare che in quel sorriso vi è tutta la bellezza dell’essere umano. Tutta la grandezza. È incredibile: è possibile una pienezza di vita anche quando questa è senza speranza, a condizione che sia illuminata da una piccola scia di speranza”.

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È vero, la mia mia amica aveva ragione, noi pastori non predichiamo abbastanza sulla morte e allora stamattina, vorrei provare a farlo a partire da una domanda: Com’è guardare Gesù dal punto di vista della sua morte? Non tanto per risolvere la questione agli alti livelli teologici, interrogandoci sul significato della morte sulla croce del Figlio di Dio. No, ma dal punto di vista di noi umani di fronte alla morte.

Il Venerdì santo è un tempo che ci viene donato anche per questo, per fermarci a sentire quel che avviene dentro di noi quando ci troviamo di fronte alla morte. E non solo quel che avviene dentro, ma anche quel che succede fuori, subito dopo. Cosa facciamo di fronte alla morte? Nel Vangelo di Marco si racconta di un processo di devozione che si mette in atto. Devozione verso il corpo ormai senza vita di Gesù. Devozione, non è una parola alla moda oggi. Viene da “voto” che significa promessa, impegno. La devozione indica un obbligo che nessuno ti ha imposto, ma che tu hai scelto liberamente.

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Maria Maddalena, Maria, madre di Giacomo e Salòme scelgono di compiere un gesto di devozione: donare al corpo del Cristo morto un’amorevole attenzione. La devozione è il tratto umano più nobile di fronte alla morte. È il grido di dolore che si trasforma in gesti di pietà verso i corpi senza vita degli annegati in mare, dei giovani corpi di soldati sfigurati lungo il fronte dell’idiozia. Gesti di devozione verso un proprio caro che si spegne lentamente a causa di un tumore. È una devozione senza speranza. Disperata. Tuttavia, ricca di gesti d’amore, di solidarietà, di compassione. Certe volte mi chiedo, spaventato, cosa succederebbe se noi umani perdessimo anche questa disperata devozione? Cosa resterebbe, se perdessimo tutto ciò?

Le tre amiche di Gesù erano disperate. Avevano perduto il loro maestro, il loro amico, colui che le aveva accolte in quanto donne nel suo movimento senza alcuna discriminazione. Quel Gesù che aveva donato loro il prezioso dono della speranza. La speranza in una vita più buona, più giusta, più bella. Proprio quel Gesù era stato picchiato, torturato, insultato e poi crocifisso e con lui, sulla croce, anche la speranza era morta.

Le tre amiche di Gesù erano disperate, ma non paralizzate. Addolorate, ma non immobili. Quell’incedere lento verso la tomba era un grido di protesta, un gesto politico. La loro era una devozione ribelle. Non avrebbero lasciato il corpo del loro amato senza alcuna cura. Come Antigone, anteposero alla legge del re la legge dell’umanità. La devozione è un tratto profondamente umano di resistenza contro ogni violenza. E benché sia disperata, conserva un seme di speranza.

Disegno di Francesco Piobbichi

La speranza che non succeda nuovamente che una donna sia uccisa per mano di un caino qualunque. La speranza che non si debba andare a lavorare la mattina e non tornare più a casa la sera. La speranza che qualcuno ti soccorra in mare al di là della tua provenienza. La speranza di restare umani anche di fronte alla morte, non al di là della morte. Perché la nostra competenza umana si ferma prima di giungere al fiume Stige. O, per dirla con parole che vengono dal Vangelo di Marco, a noi tocca fermarci davanti alla tomba perché non abbiamo il potere di rotolare la pietra.

Le tre donne si chiedono: “Chi ci rotolerà la pietra dall’apertura del sepolcro?”. Questa domanda rappresenta quel limite invalicabile di ogni nostra devozione. Il limite della nostra indignazione. Il limite del nostro dolore. Il limite della nostra protesta. Un limite di cui siamo pienamente consapevoli. Un limite ch’è intrinseco al Venerdì santo, in cui, nella partita a scacchi, la morte ha il vantaggio della prima mossa.

Tuttavia, la partita è ancora lunga e finirà la domenica di Pasqua, quando Dio farà l’ultima mossa, e farà scacco matto alla morte. Ma prima di allora bisogna raccogliere tutte le nostre forze umane e portare avanti la nostra lotta contro ogni male. Accogliere la sfida, senza la fanatica presunzione di chi non sa accogliere il limite del Venerdì santo e senza la resa disperata di chi non vuole muovere i pezzi sugli scacchi perché sa che non potrà vincere. Siamo di fronte al nonostante tutto del Venerdì santo che si può raccontare solo narrando una storia.

La storia di Benedetta, la madre di Marta, deceduta nel 2005, dopo aver trascorso quattro giorni e quattro notti nel reparto di rianimazione. “Quando morì Marta, io incontrai una donna […] che aveva perso suo figlio da poco e mi disse: ‘Benedetta guardami! Io sono viva! Sopravvivrai anche tu!’ Non me lo dimenticherò mai: in quel momento stavo guardando una mamma che aveva perso il figlio e che era sopravvissuta, era lì di fronte a me in carne e ossa, sopraffatta dal dolore ma ancora viva, e mi chiedeva di guardarla. Era sopravvissuta in modo bello, perché era una donna ancora con tanta energia e vita, era l’immagine stessa della vita e della vitalità. Questa è la speranza”.

Le parole della mamma di Marta, Benedetta, ci invitano a soffermarci sulla morte, senza fretta, in questo giorno che noi dedichiamo a ricordare la croce di Gesù. Soffermarci sulla devozione umana di fronte alla morte. Quei gesti di amore e di solidarietà che ci fanno restare umani anche in un tempo che si manifesta violento e disumano. Amen!


Preghiamo: Dio della vita insegnaci a restare umani anche di fronte alla morte. Insegnaci l’arte della compassione e della devozione. Insegnaci a non girarci dall’altra parte. Trasformaci in donne e uomini che sappiano ancora indignarsi di fronte alla violenza e che non vogliono restare con le mani in mano. Fa che non ci voltiamo dall’altra parte e che non cambiamo strada di fronte alla sofferenza di chi non può difendersi. Che la morte di Gesù ci ricordi il dolore di un uomo appeso ingiustamente sulla croce, in compagnia di una lunga schiera di vittime. Oggi, Venerdì santo, rendici umani, Signore. Amen.