Roma (NEV), 1° marzo 2024 – Si è tenuto martedì scorso l’incontro promosso dal Centro culturale protestante di Milano dal titolo “Chi ha peccato, lui o i suoi genitori?“.
Il rapporto tra malattia, sofferenza e colpa nella Bibbia e nella società attuale è stato indagato da Cristina Arcidiacono, teologa e pastora della Chiesa evangelica battista di Milano. E da Roberto Labianca, medico chirurgo, Specialista in Oncologia, già direttore Cancer center, Oncologia medica e Cure palliative.
Se ti ammali, di chi è la colpa? Tua? Dei tuoi genitori? Del medico? Del fumo o dell’inquinamento? Dello stile di vita? Di Dio? La malattia, è una punizione?
Queste domande aprono a un discorso ampio sul piano etico, medico, psicologico. Il tema riguarda anche le questioni della prevenzione, della cura, del dolore, della spiritualità e del comportamento, le relazioni, e persino la tecnologia medica, la politica, le religioni. Su questo delicatissimo terreno, che la pastora Arcidiacono definisce “sacro”, si intrecciano giudizi, pregiudizi, errori e paure.
Arcidiacono indaga il testo biblico e porta l’esempio dei discepoli, la visione di “una relazione stretta tra malattia fisica e malattia spirituale”. Sottolinea il “passaggio generazionale delle colpe” e cita Miriam, la sorella di Mosè, che viene punita con una sorta di lebbra per aver messo in discussione l’autorità del fratello davanti al Signore. O la tragica morte del figlio di Betsabea e Davide, come punizione di Dio.
Ma nella Bibbia, dice la pastora, “c’è anche un altro soffio, un vento diverso da questo. Il profeta Geremia, riprendendo Ezechiele, dirà: ‘In quei giorni non si dirà più: i padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati. C’è un nuovo patto che Dio ha in serbo per il popolo, una nuova logica in cui desidera che le sue figlie e i suoi figli entrino”. Anche Giobbe e Osea rovesciano, ciascuno a suo modo, il rapporto causa-effetto tra disubbidienza e malattia.
Paul Ricoeur, filosofo protestante, scriveva che il male ci fa pensare altrimenti. “È il tertium datur della teodicea – sostiene ancora Arcidiacono –. Il male è possibilità di pensare altrimenti, di entrare in una logica diversa. Il male esiste, e colpisce anche me. Un’altra cosa, almeno, mi insegna Giobbe: che sono piccola piccola e il mondo è molto più grande. Mi decentra. Mi sottrae dal pensiero tutto umano di essere al centro della creazione”. Gesù “spezza il legame tra peccato e infermità e rovescia la prospettiva: le opere di Dio non si manifestano nella distruzione della persona (scrive Jean Zumstein), ma nella sua guarigione, laddove guarigione significa salvezza. In tutto il testo non troviamo la parola ‘guarì’, o ‘fu guarito’, ma ‘colui che era stato cieco e ora vedeva’. In gioco c’è riconoscere Gesù come la luce del mondo”.
In che modo guarisce Gesù?
“Ci sono tanti racconti di guarigione nei vangeli – prosegue Cristina Arcidiacono –. Sono chiamati miracoli, in Giovanni segni, proprio perché rimandano a qualcos’altro, a una dimensione esistenziale che non fa coincidere la persona con la malattia, ma la inserisce in un sistema di relazione con Dio, in Cristo, con le altre e gli altri, con se stesse. Ogni racconto di miracolo non termina con la guarigione fisica: essa accompagna il percorso di fede della persona. Gesù rende autori e autrici: rende soggetti della propria vita. Vivere nella colpa o nella paura di essa, concentrarsi sulle colpe degli altri per non vedere le proprie sofferenze significa non vivere”.
Vivere nella paura della malattia, della morte è non vivere.
“Elizabeth Kubler Ross, pioniera della pastorale clinica e ricercatrice sul tema della malattia e del lutto, soleva dire che i nostri maestri sono le persone malate. Ascoltarle, domandare, riconoscere loro la propria dignità e il proprio essere soggetti significa intraprendere un percorso di cura che permette anche a chi sta accanto di cambiare, di lasciar andare le proprie certezze, rigori, rigidità, al servizio della vita altra. E come vivere allora, integrando la malattia, e anche la morte nella propria vita? Gli antichi filosofi dicevano ‘imparando a morire’. Che se ci pensiamo è imparare a vivere”. Arcidiacono conclude parlando del cambio di prospettiva radicale di Gesù, quando dice “Io sono la resurrezione e la vita”. Non dice “la vita e la resurrezione”, non rispetta l’ordine cronologico, osserva la pastora. Perché? La risposta è nella storia di Lazzaro. “Il risorto mi precede. Riconoscere l’esserci di Dio quotidiano, nella buona e nella cattiva sorte, è un modo per riconoscere che Cristo è la resurrezione e la vita, che la resurrezione non è un prolungamento della vita, ma è vita altra, fondata su un Altro, per il quale l’ultima parola sulla mia vita non è nemmeno mia, o della morte stessa, ma sua”.
La registrazione integrale dell’incontro è disponibile online sulla pagina YouTube del Centro: