Roma (NEV), 7 gennaio 2025 – Pubblichiamo il testo della rubrica “Essere chiesa insieme”, andata in onda in chiusura del programma di RAI Radio1 “Culto evangelico” dello scorso 5 gennaio. Paolo Naso ricorda la figura di Jimmy Carter, presidente degli Stati Uniti, Premio Nobel per la pace e diacono della chiesa battista di Plains (Georgia).
Negli ultimi giorni di un anno segnato, più di altri, dalle guerre e dalla violazione dei diritti umani, a cento anni ci ha lasciato Jimmy Carter: probabilmente uno dei presidenti americani più sottovalutati del dopoguerra.
Persino all’establishment del suo partito appariva bizzarra la sua origine di uomo del Sud, nato e cresciuto in una piantagione di arachidi che gli era valsa il nomignolo irrisorio di “presidente delle noccioline”; così come in molti avevano criticato la sua pubblica confessione di fede – si era definito “un Born Again Christian”, un cristiano nato di nuovo in Cristo, espressione di chiara impronta evangelical; o l’insistenza con cui si presentava come diacono che, ogni domenica, insegnava alla scuola domenicale della Maranatha Baptist Church di Plains, Georgia, in cui era cresciuto.
Un “puritano”, potremmo dire, erede di quella tradizione evangelica riformata da cui sorsero alcune delle prime colonie che poi dettero vita agli Stati Uniti. Puritano: soprattutto in Italia, parola fraintesa e derisa che, diversamente dal senso comune, ci rimanda all’idea teologica di una fede pura, naturalmente evangelica, vissuta sobriamente, scelta per intima convinzione e non per imposizione di un re o di un imperatore. E per questo laicamente distinta e separata dalla politica.
Nel 1976 gli strateghi della campagna elettorale democratica suggerirono a Carter di abbassare i toni della sua fede evangelica per adottare un linguaggio più laico e, dal loro punto di vista, più universalistico. Carter non seguì il consiglio e in quell’elezione riuscì a conquistare gran parte del voto evangelical. Nel fango dello scandalo del Watergate che nel 1974 era costato la carriera e la reputazione al presidente Richard Nixon, i tratti semplici e persino ingenui dell’onestà di Carter, gli tributarono i voti di importanti settori dell’elettorato religioso e moderato.
Negli anni alla Casa Bianca, Carter sviluppò un’agenda politica in netta discontinuità con quella dei suo predecessori repubblicani, Nixon e Ford: concesse l’amnistia a tutti gli obiettori di coscienza al servizio militare in Vietnam; istituì due Dipartimenti strategici come quelli per l‘energia e l’istruzione; avviò una rete di negoziati tesi a chiudere storiche crisi geopolitiche – ad esempio quella di Panama – o a pacificare aree di tensione, prima tra tutte quella mediorientale. Il successo più evidente di quella strategia fu l’accordo di Camp David che nel 1979 sancì la pace tra l’Egitto e Israele: un patto di lunga durata che, ancora oggi, costituisce uno dei pochi punti fermi del fluido mosaico mediorientale.
La contingenza economica, però, non aiutò Carter e alcuni dei suoi programmi di riforma sociale non poterono essere adottati per mancanza di fondi. Arriviamo così a quel drammatico 1979 quando il Presidente dovette reagire al rapimento di 52 ostaggi americani nell’ambasciata USA di Teheran, ormai sotto il controllo degli ayatollah. La missione militare tesa a liberare gli ostaggi fu un assoluto fallimento che decretò la fine della popolarità del presidente e, a seguire, la sua sconfitta nelle elezioni vinte da un attore di Hollywood che avrebbe dato forma a un nuovo conservatorismo politico, assai più radicale di quello classicamente interpretato dal partito repubblicano.
Nelle elezioni del 1980 il voto” religioso” andò a Ronald Reagan che, di lì a poco, divenne il catalizzatore di una Destra religiosa destinata, nel tempo, a diventare la prima forza interna al Partito Repubblicano. Il fondamentalismo conservatore che oggi domina in America è figlio di quella vittoria e, al contempo, della sconfitta di quell’evangelicalismo sociale, sempre laico, idealmente pacifista, inclusivo, rispettoso dei diritti umani di cui Carter è stato un coerente testimone anche dopo la sua uscita dalla Casa Bianca.
Animato da questi valori, Carter assunse una postura da post-presidente, attivo ed impegnato in “Habitat for Humanity”, un’associazione cristiana che costruisce case a basso costo per i poveri e in altre organizzazioni per i diritti umani. Il Carter Center, nella periferia di Atlanta, divenne un riconosciuto laboratorio per la costruzione di politiche di pace e un centro di aiuto alle politiche per lo sviluppo.
Tutto questo nel 2002 gli valse il premio Nobel per la pace. Ma anche la rottura con la Southern Baptist Convention, sempre più allineata con la Destra religiosa e con gli ambienti dell’evangelicalismo conservatore oggi convintamente schierati con Donald Trump.
Fede biblica, pietà evangelica, impegno sociale per la pace, vicinanza ai poveri e alle minoranze discriminate: ecco l’eredità che Jimmy Carter lascia a un cristianesimo evangelico oggi minoritario, anche negli USA: una testimonianza di fede che, animata da una forte spiritualità biblica e dal rigore etico, sa incidere anche sul piano sociale e politico.