Fiori di speranza in un deserto chiamato pace

Immagine tratta da https://ceceurope.org/declaration-ccee-cec-joint-committee-situation-middle-east

Roma (NEV), 3 febbraio 2025 – Riportiamo il testo della rubrica “Essere chiesa insieme”, curata da Paolo Naso, e andata in onda in chiusura della puntata del “Culto evangelico”, programma di RAI Radio1, andata in onda domenica 2 febbraio 2025.


Finalmente, negli ultimi giorni dal Medio Oriente è arrivata qualche buona notizia. Per quanto fragile e parziale, è stata dichiarata una tregua degli scontri tra israeliani e palestinesi di Gaza; sono stati rilasciati i primi ostaggi sequestrati dai miliziani di Hamas il 7 ottobre del 2023 e, di rimando, Israele ha rilasciato qualche centinaio di detenuti palestinesi per reati, anche assai gravi, connessi al conflitto.

Purtroppo, le buone notizie finiscono qui, perché, intanto, proseguono gli attacchi in Libano e in alcune città della Cisgiordania. Disperanti anche le immagini che ci arrivano da Gaza che, per quanto abbiamo potuto vedere, appare un ammasso di macerie, una terra arida in cui, per anni, non crescerà nessun olivo, nessun pompelmo, nessun arancio. Questo deserto è ciò che oggi chiamiamo pace.

E così, mentre un fiume di persone cerca di tornare nei luoghi sui quali sorgevano le loro case nel Nord della Striscia, si inizia a discutere del futuro e di una soluzione stabile – per quanto stabile possano essere gli equilibri del Medio Oriente – per la pace tra israeliani e palestinesi.

Paolo Naso

A pochi giorni dall’inizio del suo mandato, Trump ha già detto la sua e, parlando del futuro degli oltre due milioni di residenti a Gaza, ha ipotizzato un trasferimento di massa nei paesi più vicini, a iniziare da Egitto e Giordania; una deportazione, giustificata con la motivazione che Gaza è ormai un cumulo di macerie mentre in altri paesi arabi i palestinesi troverebbero case confortevoli e accoglienti.

Ovviamente, la destra israeliana ha subito plaudito a questa proposta che, in sostanza, pone le premesse per un allargamento territoriale di Israele, con il valore aggiunto di interessati progetti di trasformazione turistica della Striscia.

La comunità internazionale, a partire dall’Europa, preferisce tacere e aspettare. Parlano invece i leader arabi dei paesi interessanti che, comprensibilmente, respingono nettamente una proposta che, tra l’altro, avrebbe effetti drammaticamente destabilizzanti sui loro paesi che, per altro, già accolgono milioni di profughi.

Quanto ai palestinesi, Trump è riuscito a riunire Hamas e l’Autorità nazionale guidata da Abu Mazen, storicamente in conflitto tra loro, in un univoco, sonoro, definitivo e non negoziabile rifiuto di una proposta che suona come un’offesa e una beffa alla causa nazionale palestinese.

Ma se è facile prevedere che l’affrettata proposta USA non andrà lontano, è più difficile capire che cosa accadrà sia a Gaza che in Cisgiordania, dove i coloni ebrei della estrema destra continuano ad allargare i loro insediamenti in ciò che resta dei pochi brandelli di terra che i vecchi accordi di pace del 1993 destinavano allo Stato palestinese. Per Gaza si ipotizza un governo di emergenza che comprenda Hamas e Autorità nazionale; per la Cisgiordania, l’estrema destra parla esplicitamente di annessione dei territori.

La pace non è dietro l’angolo ed anche la formula tradizionale dei “due popoli, due stati” oggi va chiarita e precisata, proprio a causa dell’estensione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, che hanno sottratto terreno e risorse all’erigendo stato palestinese.

Ad oltre 75 anni dal piano di spartizione dell’ONU del 1948, lo stato palestinese non può ridursi a qualche frazione di territorio, discontinuo e circondato da insediamenti ebraici e check-point israeliani. Andrebbe contro la storia e contro il diritto internazionale e il principio di autodeterminazione dei popoli.

D’altra parte, Israele ha diritto alla sicurezza del suo territorio e dei suoi abitanti che in questi anni hanno subito migliaia di attentati violenti e terroristici. Non serva una generica pace, insomma, serve una pace che garantisca giustizia da una parte e sicurezza dall’altra. Non è un’idea nuova, forse è la più antica, eppure è un fiore che non è mai sbocciato e che, oggi, nessuno sembra pronto a coltivare.

Eppure, scavando nel profondo delle società israeliana e palestinese, si trovano delle eccezioni: uomini e donne di un popolo e dell’altro – cristiani, ebrei e musulmani – che hanno scelto il sentiero stretto della ricerca della pace e della convivenza. Storie preziose e poco raccontate ma cariche di speranza. Ce le propone un recente libro edito da Com Nuovi Tempi, la casa editrice associata alla rivista Confronti, curato da Michele Lipori e intitolato “La pace possibile”.

Il libro racconta di Yael, una donna israeliana nata in uno dei kibbutz colpiti dall’azione terroristica di Hamas del 7 ottobre, che attualmente coordina un’associazione – Road to Recovery – che si occupa del trasporto di malati palestinesi negli ospedali israeliani.

Rana Salman presiede un’associazione di israeliani e palestinese, Combatants for peace: uomini e donne che in passato hanno combattuto e che ora si sono uniti per promuovere iniziative di educazione alla pace.

Lyla al Sheikh, una donna di Betlemme che, in seguito a un’incursione militare israeliana, ha perso il suo bambino di pochi mesi, oggi lavora con Parents Circle – Family Forum, un’organizzazione che riunisce parenti di vittime del conflitto, sia israeliane che palestinesi.

Yael Admi, è a capo di Women Wage Peace, un’importante organizzazione di donne pacifiste israeliane che, tra l’altro, ha promosso una “marcia della speranza” per chiudere al premier Netanyahu di agire con convinzione per la pace.

Nella rubrica del Culto evangelico di domenica scorsa, si è parlato del villaggio di Neve Shalom- Wahat-as Salaam, nel quale da decenni israeliani e palestinesi convivono, educando insieme i loro figli e dando un concreto esempio del fatto che la pace è possibile.

Sono loro, queste donne e questi uomini raccolti in queste associazioni ed altre ancora, quelli che la Bibbia chiama “facitori di pace” o, meglio, “coloro che adoperano per la pace”. Vittime e testimoni del dolore della guerra che, anche tra le macerie di Gaza e le lacrime dei rapiti che non torneranno a caso, sanno coltivare il fiore della speranza.