Roma (NEV), 7 febbraio 2025 – Riceviamo e pubblichiamo un breve resoconto dell’incontro “Medio Oriente. Quale pace possibile?” tenutosi lo scorso 30 gennaio 2025 al Polo Civico Esquilino a Roma. L’incontro è stato promosso nell’ambito del Cantiere del Centro interconfessionale per la pace (CIPAX) 2024/2025 “Testimoni di pace nella violenza”. Il progetto è sostenuto dai fondi dell’Otto per mille della Chiesa valdese – Unione delle chiese metodiste e valdesi. La sintesi degli interventi è curata dal sociologo Luciano Ardesi, vicepresidente del CIPAX.
L’incontro, coordinato da Cristina Mattiello, presidente del CIPAX, è stato aperto da Anna Foa, ebrea della diaspora, che ha spiegato come, per lei storica, la necessità di occuparsi della contemporaneità sia nata con le grandi manifestazioni in Israele contro la riforma della giustizia voluta da Netanyahu e poi con la tragedia del 7 ottobre. Sulla base di quanto aveva studiato della storia dell’ebraismo ha sentito la necessità di scrivere Il suicidio di Israele (Laterza, 2024), che tante opposizioni ha suscitato nelle comunità ebraiche in Italia.
Per Anna Foa è impossibile riconoscere nell’orrore del 7 ottobre un legittimo movimento di liberazione contro l’oppressione.
Considera Hamas e Netanyahu come due opposti estremi di una volontà simile: sbarazzarsi dello Stato di Israele per fare uno Stato islamico da una parte, sbarazzarsi dei palestinesi per fare una grande Israele sul modello biblico dall’altra, in entrambi i casi dal fiume al mare. Netanyahu voleva la guerra per far dimenticare la sua responsabilità per aver spostato le divisioni dal confine con Gaza alla Cisgiordania, perché, come si sta rivelando ora, quello che interessa Netanyahu è la Cisgiordania, non tanto Gaza. Senza il 7 ottobre Netanyahu sarebbe caduto. La distruzione di Gaza, i crimini di guerra e contro l’umanità a Gaza hanno scavato un baratro incolmabile tra i due mondi. La stessa sinistra israeliana non ha trovato empatia con le vittime di Gaza. Netanyahu ha subito assimilato il 7 ottobre alla Shoah, mentre le due cose non sono assimilabili. La giustizia internazionale nasce dopo la Shoah, nasce come memoria della Shoah e ne è parte, la memoria serve a impedire altri genocidi. L’attacco alla giustizia internazionale è quindi anche un attacco alla Shoah.
Il teologo musulmano Adnane Mokrani ha espresso, malgrado ciò che accade in Medio Oriente, il suo ottimismo a partire da tre segni di speranza.
Il primo è il documentario The Other Land che mostra il modo nonviolento con cui i contadini difendono la propria terra e le case, e l’amicizia tra due ragazzi, uno palestinese e l’altro ebreo israeliano, che hanno scelto la solidarietà. E l’amicizia rimane malgrado la violenza. Il secondo segno è dato da giovani americani ebrei che sfidano l’opinione pubblica e le istituzioni e cercano di esprimere un pensiero nuovo, critico, di solidarietà. In questi mesi sono usciti tanti libri, sono nate tante associazioni, c’è una grande fermento, anche tra i musulmani. L’unico modo di lottare contro l’antisemitismo e tutte le forme di oppressione nei confronti di tutti i gruppi, dunque anche dei palestinesi, è la solidarietà, unica via di salvezza. Il terzo segno di speranza è rappresentato da una nuova iniziativa interreligiosa, nata da poco, per una teologia della nonviolenza, dove teologi ebrei, musulmani, sunniti e sciiti, cattolici e protestanti insieme cercano di riflettere per trovare approcci innovativi. Si fa presto a condannare la violenza, ma l’alternativa della nonviolenza richiede un grande impegno comune, una rete internazionale, perché il vuoto della nonviolenza permette la crescita della violenza. La pace è possibile quando abbandoniamo l’idea che si può annientare il nemico. La guerra tra palestinesi e Israele ha un impatto globale, è il sintomo di una malattia universale. Oltre al suicidio di Israele si può parlare del suicidio dell’umanità. Il messaggio di questa guerra è: se sei protetto dalle potenze mondiali puoi fare quello che vuoi. È un messaggio molto grave perché significa che la guerra può essere replicata da un’altra parte. Ci salviamo tutti o nessuno, come ci dice anche la crisi climatica.
Alessandro Portelli, in qualità di presidente del Circolo Gianni Bosio, ha posto alcune domande fondamentali.
È possibile la pace? Perché in questo momento sembra che non lo sia. È possibile uscirne? La cosa importante è che desideriamo uscirne, perché il desiderio è la molla della volontà. Quale pace è possibile? Due Stati? Soprattutto quale Stato palestinese? È possibile una rappresentanza democratica del popolo palestinese? Unico modo – impensabile però – di creare democrazia è che sia imposta dalla necessità di convivere, per questo crede ai due popoli in uno Stato che col tempo diventino un popolo solo. È utopia, ma immaginare l’impossibile può essere l’unico realismo. A proposito della nonviolenza: come si può parlare di nonviolenza mentre si pratica la violenza? Bisogna spezzare la spirale, qualcuno la deve smettere. Non possiamo chiederlo a Netanyahu né ad Hamas, ma a quelli che hanno perso tutto a Gaza e a quelli che hanno perso le persone nella strage del 7 ottobre. Lo dobbiamo chiedere a chi avrebbe tutta la tentazione di rivendicare la vendetta e dire: fermiamo questa spirale.
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