Roma (NEV/CELI), 23 maggio 2025 – Il 23 maggio 1992 la Sicilia smette di respirare: l’inquietudine di Falcone sfida anche le Chiese a compiere scelte profetiche coraggiose.
La strage di Capaci: un sabato qualunque
Il 23 maggio 1992 la Sicilia smette di respirare come prima. In quel sabato di 33 anni fa comincia a fare caldo in Sicilia. I pomeriggi assolati, cantati da Franco Battiato, risuonano del ronzio degli insetti e le spiagge riprendono a popolarsi.
La lingua di asfalto tra l’Aeroporto di Punta Raisi e Palermo lascia risalire il calore accumulato durante il giorno mentre il riverbero del cielo annuncia l’arrivo della frescura serale.
È in questo sonnacchioso pomeriggio che un mix di tritolo, nitrato d’ammonio e RDX squarciano il silenzio e l’asfalto.
Muoiono così Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta: Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro.
Mentre rimangono feriti Angelo Corbo, Paolo Capuzza, Gaspare Cervello, Giuseppe Costanza e altre 19 persone che transitano in quel tratto autostradale.
Giustizia senza odio, legalità senza idolatria
“Anche nel più efferato dei delinquenti io devo vedere l’uomo.” Così diceva Falcone e non si tratta di una frase costruita per commuovere, ma per disarmare.
Un’asserzione che toglie alla giustizia la tentazione della vendetta riportando tutti e tutte al nodo del problema: cosa rende forte le mafie e l’ingiustizia?
In quelle parole possiamo intravedere un’eco protestante: il richiamo alla responsabilità del proprio agire e della propria conversione, anche laddove sembra impossibile…
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