Roma (NEV), 27 giugno 2025 – Riceviamo e pubblichiamo il testo di una lettera aperta inviata nei giorni scorsi da Paolo Naso e Brunetto Salvarani alla presidente dell’Unione comunità ebraiche italiane (UCEI), Noemi Di Segni. I firmatari intendono riprendere l’intervento della stessa Di Segni pubblicato su Moked lo scorso 6 giugno: SOCIETÀ – Noemi Di Segni (Ucei): La mobilitazione per Gaza e le preoccupazioni del mondo ebraico – Moked
Roma – Carpi, 23 giugno 2025
Gentile Presidente Noemi Di Segni,
l’attacco israeliano contro l’Iran dello scorso 13 giugno, teso a fermare il processo di produzione di armi nucleari da parte del governo di Teheran, ha spostato l’attenzione internazionale su un nuovo, drammatico capitolo della geopolitica mediorientale, distraendo l’opinione pubblica dalla situazione di Gaza. Ma è su questa che vorremmo tornare riprendendo il suo intervento pubblicato su Moked il 6 giugno scorso, alla vigilia della manifestazione romana comunemente definita “per Gaza”, nella quale affronta una serie di importanti nodi di ordine politico, storico ed anche teologico che meritano di essere approfonditi nell’acceso dibattito pubblico di queste settimane. Avendo apprezzato la misura e l’onestà intellettuale con cui si confronta con temi che, come lei stessa afferma, hanno prodotto “un logoramento esteso che riguarda anzitutto Israele e la popolazione palestinese, così come le comunità ebraiche nel mondo e, in qualche modo, anche l’Europa e le democrazie occidentali”, ci permettiamo di proporle alcune riflessioni a partire da alcune delle sue affermazioni, in uno spirito di dialogo franco e aperto.
Innanzitutto, a noi pare che forse le stia sfuggendo il senso dell’urgenza degli appelli al governo di Israele perché fermi le azioni militari contro la popolazione civile e tratti con convinzione e determinazione con Hamas per il rilascio degli ostaggi ancora prigionieri: in quest’ordine, che non è dettato dalla morale ma dalla logica che caratterizza questa fase del conflitto. Crediamo che non dubiti che la popolazione palestinese sia davvero allo stremo e che l’impedimento alla consegna di aiuti alimentari da parte della Croce Rossa e di altre agenzie realmente indipendenti da Israele e dagli USA costituisce un crimine di massa contro dei civili.
Se è chiaro che Hamas ha agito con metodi che non si possono non definire terroristici, come qualificare la persistente e massiccia azione israealiana contro la popolazione civile palestinese? Lei, comprensibilmente, esprime preoccupazione per “l’uso irresponsabile di termini come genocidio, apartheid, che hanno significati precisi nella storia”. A nostro avviso ha senz’altro ragione a richiamare osservatori e attori a rispettare l’origine delle parole, e quindi a non usarle in modo ideologico e aggressivo. Così come, con lei, non possiamo accettare che termini come sionismo siano diventati per molti sinonimo di persecuzione e vendetta. Detto questo, il rifiuto ad utilizzare il termine “genocidio” non sottrae il governo di Israele e chi lo sostiene dalla responsabilità di condurre un’azione militare che, per esplicita affermazione di alcuni suoi ministri, potrebbe concludersi solo con la deportazione dei palestinesi di Gaza. Come definire tutto questo? Le parole sono armi, certo, ma di fronte a ciò che vediamo non crediamo che il rigore storico e della definizione giuridica possa prevalere sulla sostanza di un’azione di ritorsione che, per le forme che ha assunto, mette in discussione la sopravvvenza di un’intera popolazione.
Riferendosi a questa popolazione civile, lei la definisce “sotto scacco dei terroristi di Hamas” ma anche “incapace di schierarsi contro il terrorismo e di scegliere una leadership in grado di garantire i veri diritti dei palestinesi”. E’ possibile che lei abbia fonti più dirette delle nostre, ma i nostri contatti a Gaza ci dicono, assai più semplicemente e prosaicamente, che i palestinesi sono in balia di eventi che non sono in grado di controllare e che la loro unica preoccupazione è oggi quella di arrivare al giorno dopo, recuperando quel minimo di cibo e di acqua necessari a sopravvivere e cercando di capire dove spostarsi per evitare i bombardamenti. Nel 2006 i palestinesi di Gaza votarono in (leggera: 44% contro 41% di Al Fatah) maggioranza per Hamas. Com’è noto, seguì una guerra civile vinta dai fondamentalisti – non sappiamo in che misura sostenuti da Israele che cercava di indebolire la leadership dell’Autorità Nazionale Palestinese e dell’OLP – che nel tempo hanno consolidato un regime autoritario, violento e teocratico che ha dirottato consistenti fondi umanitari sulle infrastrutture militari della Striscia piuttosto che sul sostegno dei bisogni della popolazione civile. Da allora sono passati quasi vent’anni e non possiamo imputare ai palestinesi sotto i bombardamenti e i ricatti di Hamas di non saper selezionare la loro classe dirigente. E’ una richiesta e un’aspettativa comprensibile, ma che potrà maturare solo nel contesto di un processo di pace e di ricostruzione della distrutta democrazia palestinese.
Non sappiamo a che cosa lei si riferisca quando parla di “guerra di comunicazione manipolata”, ma con tutta onestà ci pare difficile non riconoscere l’evidenza di immagini e resoconti giornalistici assai diversificati per orientamento generale che mostrano volti affamati, scuole e ospedali distrutti, civili uccisi mentre si avvicinano a un centro di distribuzione del cibo o dell’acqua. Nel corso di una guerra si combatte anche con le immagini ma, ribadita questa ovvia verità, non crediamo si possa speculare sull’inoppugnabile sostanza di quanto sta accadendo.
Non ci pare, inoltre, che quella che lei definisce minaccia “da infiltrazioni terroristiche e da varie forme di radicalizzazione” siano sottovalutate dal nostro governo e, più in generale, in Europa, così come dissentiamo dalla generica accusa che lei rivolge a “organizzazioni e movimenti … anche studenteschi” che lei vede collusi con centrali del terrore, “in qualche caso anche sotto l’egida di organizzazioni internazionali”. Se avesse prova che gli studenti “pro-Pal” che si sono mobilitati negli atenei italiani – in forma che noi stessi possiamo testimoniare generalmente nonviolenta – più o meno inconsapevolmente agiscono per conto di centri o agenzie anche solo vagamente colluse con il terrorismo islamista, sarebbe importante rendere pubblici questi dati e noi per primi, naturalmente, saremo pronti a denunciare mobilitazioni e strumentalizzazioni di questo tipo. Per quanto abbiamo potuto vedere e che possiamo testimoniare in qualità di docenti, invece, la mobilitazione “pro-Pal” di tanti giovani è il frutto di un’indignazione umanitaria che merita attenzione e rispetto.
Lei afferma, inoltre, che le comunità ebraiche nel mondo vivono sotto minaccia, oggetto di insulti di odio che talora rievocano lo sterminio, e subiscono limitazioni alla pratica di professare la propria fede in piena libertà, sconvolte da un’ondata di antisemitismo e odio razziale che non si palesava dai tempi della Shoah.
Aderiamo alle sue parole e al suo giudizio, che però non può ignorare che negli stessi giorni circolano non minori parole d’odio nei confronti dei palestinesi, così come dei musulmani, e si diffonde una virulenta islamofobia che associa l’islam – tutto l’islam e tutti i musulmani – al terrorismo, alla violenza contro le donne, all’antisemitismo e a quant’altro nega i diritti umani e i principi fondamentali della convivenza democratica. Tutto questo accade anche in Israele, che rivendica il ruolo di unica democrazia del Medio Oriente ma che tollera e talora nelle parole dei suoi massimi leader politici enfatizza propositi di deportazioni e distruzioni di massa del popolo palestinese.
Denunciare l’antisemitismo senza accostarvi un giudizio altrettanto severo contro l’islamofobia e le parole di odio antipalestinese e razzista che si odono in Israele come nel resto del mondo rischia di essere un atteggiamento sbilanciato che finisce per alimentare altro odio e altra violenza.
A questo riguardo, lei ritiene che “forme di boicottaggio, disconoscimento, interruzioni di accordi storici e demonizzazione di Israele generano solo odio dilagante, si presentano come punizioni collettive” e disconoscono il bene che per decenni è maturato per l’Italia, la sua economia, sviluppo, istituzioni e cittadini”. Il che ci pare senz’altro vero: ma non crede che considerazioni analoghe si debbano fare per i palestinesi e che le “punizioni collettive”, gli arresti preventivi e il sostanziale blocco degli aiuti alimentari attuato dal governo di Israele meritino un giudizio altrettanto netto e severo?
Lei stessa lo riconosce, del resto, prendendo le distanze da “chi annuncia piani di svuotamento di Gaza dai suoi naturali abitanti” e da quanti “seppur isolati … attaccano persone e beni nei villaggi della Cisgiordania. L’incitamento alla violenza è lontano da ogni morale ebraica”. Sono parole che fanno onore a lei e alla comunità ebraica che lei rappresenta ma che, purtroppo, non trovano ascolto non solo in alcuni settori dell’ebraismo ma anche in una parte consistente di chi sostiene Israele senza critiche e senza distinguo.
Gentile presidente, lei ha ragione anche quando esprime la sua preoccupazione per la scelta – di alcuni, forse troppi – “di difendere solo un popolo – quello palestinese – e non anche quello israeliano” e denuncia le “responsabilità storiche prima dei Paesi arabi”. Non possiamo seguirla, però quando si riferisce agli “organismi internazionali” che lei elenca insieme alle “organizzazioni terroristiche che governano arbitrariamente a Gaza da decenni, indottrinano ragazzi e pianificano un nuovo sterminio”. Israele siede negli “organismi internazionali” cui lei si riferisce, e non capiamo come si possa delegittimarli soltanto perché criticano o sanzionano Israele che, per altro, ha pienamente modo di far valere le sue ragioni.
A questa affermazione, lei aggiunge che gli ebrei italiani restano “convinti che l’opzione ‘due popoli e due stati’ rappresenti ancora una meta moralmente doverosa, verso la quale alzare lo sguardo come orizzonte futuro di tutti per tutti”. E’, per quello che conta, anche il nostro pensiero, da sempre.
Siamo con Lei, cara Presidente, anche quando esprime la preoccupazione “come cittadini italiani, per un livello di guardia e vigilanza sulla tenuta della nostra democrazia, i cui presidi sono abusati anziché usati, per escludere anziché includere, sottovalutando la reale minaccia e violenza che scaturisce da parole e slogan”. Questo è vero, e forse è proprio da qui che potremmo ripartire per riqualificare quel dialogo tra diverse espressioni della società civile italiana e la comunità ebraica. L’obiettivo? Rivitalizzare quel sogno che “si è sbiadito in questi logoranti mesi” ma, come lei afferma, resta l’unica speranza di una pace “disarmata e disarmante”, come si è espresso il nuovo vescovo di Roma Leone XIV.
Per questo, gentile Presidente, siamo pronti e interessati a partecipare a iniziative che possano andare nella prospettiva della giustizia e della pace per due popoli, della sicurezza per lo Stato di Israele e per l’erigendo stato palestinese e della difesa per i diritti umani, ovunque vengano negati e vilipesi. Il nostro atto di speranza è che ancora sia possibile uscire da questa situazione, drammatica per tutti. Come ha scritto recentemente David Grossman in una bella intervista a Repubblica (22 maggio 2025): “Abbiamo il dovere di dare ai bambini strumenti per superare la paralisi che noi stiamo vivendo. L’odio ha tanti agenti: più la guerra va avanti più crescono. In una situazione così brutta, sperare è un atto di protesta. Non possiamo lasciare la realtà nelle mani dei codardi, di chi odia o di chi assiste passivamente a quello che succede”.
La ringraziamo dell’attenzione, con viva cordialità e molti auguri per il suo servizio,
Paolo Naso
Brunetto Salvarani