Torre Pellice, 29 agosto 2019 – L’Agenzia Nev, presente al Sinodo delle chiese metodiste e valdesi che si sta svolgendo a Torre Pellice (TO), ha intervistato la pastora Daniela Di Carlo relatrice della Commissione d’Esame sull’operato della Tavola valdese, del Comitato permanente OPCEMI, del Consiglio della Facoltà valdese di teologia, della Commissione sinodale per la diaconia – CSD che ha redatto il documento sul quale si sono svolti i lavori dell’Assemblea.
La Commissione è composta anche da Francesca Sini, Paola Schellenbaum, Mattia Costa, Mario Vanzella, Alga Barbacini.
Quest’anno per la prima volta c’è stata una sola Commissione d’Esame che ha accorpato il lavoro di valutazione sia della Tavola che della Diaconia. Come è andata?
E’ stata un’esperienza davvero interessante, che si replicherà perché abbiamo cambiato una nostra norma. Mettere insieme le chiese e la diaconia, che si occupa dell’azione sociale, ci ha permesso di vedere l’intreccio profondo tra la parola predicata e la parola agita.
In che modo ha lavorato la Commissione?
Abbiamo iniziato a lavorare due mesi prima del Sinodo. In questa data ci viene consegnata tutta la documentazione inerente il lavoro delle commissioni amministrative che poi devono rispondere davanti all’Assemblea sinodale. Quindi bisogna analizzare queste relazioni ma è anche necessario fare una serie di incontri e visite nei territori.
La redazione di questo documento vi ha permesso di viaggiare e conoscere dall’interno le varie articolazioni della chiesa valdese e metodista in Italia. Che impressione ha ricevuto?
Gli incontri che abbiamo avuto ci hanno restituito un’immagine straordinaria rispetto al numero di persone e di idee, di forze e di volontariato che girano intorno alle nostre chiese. Siamo rimasti sorpresi e anche emozionati. Tante persone, tante idee, tante azioni fanno davvero la differenza del nostro modo testimoniare ciò che siamo nel mondo.
Sulla copertina della Relazione che avete presentato al Sinodo c’è l’immagine della scritta Register (resistere). Perché?
Spesso si parla del nostro come un tempo di crisi ed effettivamente ci sono dei segnali molto preoccupanti. Abbiamo però voluto usare questa parola, incisa a metà del XVIII secolo sulla parete della prigione della Torre di Costanza da Marie Durand, che trascorse 38 anni rinchiusa a causa della propria fede, per incoraggiare le altre donne prigioniere. Pensiamo che, paradossalmente, le chiese vivano la speranza anche quando ci sono segni di crisi. Ed è la speranza che ci rende capaci resistere, di non arrenderci; noi siamo investiti dal compito di portare la speranza del mondo e di offrire la luce dove ci sono le tenebre.
Una delle parole chiave contenute nell’Introduzione alla relazione, che è una sorta di guida, è chiesa orizzontale. Cosa significa per voi?
È una chiesa che si sceglie veramente. Nel passato, anche nella nostra realtà protestante, ci si recava in chiesa o si diventata attivi per tradizione familiare o paura. Avere una chiesa orizzontale significa poterla scegliere nel pieno delle proprie volontà. Una chiesa orizzontale è una chiesa che decide collettivamente, che non aspetta la parola esterna per mettersi in moto. È una chiesa che attraverso le sue assemblee prende delle decisioni sempre ed esclusivamente insieme.
Un’altro tema presente nel documento è quello intergenerazionale. I templi si svuotano di persone giovani ma, voi scrivete, “i giovani sono con noi in maniera diversa”.
Spesso siamo portati a pensare che solo il modello che abbiamo sperimentato noi possa essere valido e fondativo. Ma non è così. Abbiamo visitato molte opere che agiscono nella società e sono sostenute da persone giovani. Anche quelle sono realtà spirituali, certamente atipiche perché non seguono il modello che noi conosciamo, ma sono ugualmente delle comunità spirituali importanti. È un bene vedere che le nostre figlie e i nostri figli, reali e simbolici, abbiano scelto il sociale che non è solo lavoro, ma anche vocazione. Dobbiamo riconoscere che i nostri giovani sanno essere comunità in modo diverso. Ed è nell’ambito dell’agire che cresce un esperimento intergenerazionale. L’incontro che forse non riusciamo più ad avere nelle chiese riusciamo ad averlo nell’agire nella società.
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