In ospedale. L’ascolto che cura

Parliamo di cura pastorale ospedaliera con il diacono valdese Massimo Long, che ha da poco concluso il percorso di formazione clinica. Un focus su bisogni e problemi spirituali dei pazienti, passando per aspetti più specialistici: telemedicina, nuove tecnologie in chirurgia, qualità della vita, traumi, patologia neonatale, disagio sociale, dipendenze e comportamenti d’abuso, cure palliative, fine vita

Il diacono Massimo Long

Roma (NEV), 11 ottobre 2022 – Il diacono valdese Massimo Long ha appena concluso il periodo di “Clinical pastoral education” (CPE), formazione pastorale clinica. Questa disciplina è nata intorno al 1920 negli Stati Uniti d’America, per iniziativa del pastore presbiteriano Anton Theophilus Boisen. Il corso, che fornisce una Certificazione riconosciuta, di per sé è aperto a tutte le persone interessate, mentre è obbligatorio per chi si avvia al ministero pastorale e alla consacrazione. In particolare è quindi rivolto a studenti e studentesse della Facoltà valdese di teologia di Roma, provenienti dalle chiese battiste, metodiste e valdesi. Tuttavia, ci sono state partecipazioni più ampie, anche ecumeniche. Una psicologa, ad esempio, primo caso di “non teologo” a partecipare, aveva chiesto di fare questo tipo di formazione. E ancora, alcuni cappellani e suore cattoliche hanno seguito un seminario di CPE con il supervisore, pastore Sergio Manna. Altri percorsi formativi di pastorale clinica sono inoltre proposti e realizzati nelle chiese locali, dove sono presenti gruppi che fanno visita alle persone malate negli ospedali. È richiesta comunque una formazione teologica di base, in quanto i momenti di predicazione e culto vengono condotti a turno da tutti i partecipanti.

Sull’esperienza in qualità di discente abbiamo interpellato il diacono Massimo Long.

Lei è diacono della chiesa valdese. Cosa significa? Quali sono le sue mansioni e in cosa consiste il suo ruolo?

La chiesa valdese riconosce ad alcune persone, alle quali è stata rivolta vocazione e che si sono adeguatamente preparate, dei ruoli specifici che sono definiti ministeri. Uno di questi è quello del diacono. Nei miei, ormai, più di 30 anni al servizio della chiesa, ho ricoperto diversi ruoli: sono stato animatore giovanile per le chiese della Val Pellice (TO), dove mi sono occupato in modo particolare di catechesi e di animazione dei gruppi di giovani delle varie comunità; sono stato diacono di comunità presso la chiesa di Rio Marina (Isola d’Elba), lì le mie funzioni erano di carattere pastorale, ma ho anche fatto l’esperienza di occuparmi della conduzione di una “casa per ferie”; a Torino, ho servito per 16 anni ed è stata la mia esperienza più lunga e diversificata: mi sono occupato del coordinamento della segreteria, della catechesi giovanile, delle attività musicali e soprattutto del coordinamento delle attività diaconali ossia dei servizi di sostegno e assistenza alle persone in difficoltà della città. Ora, da tre anni, sono in servizio presso la chiesa di Pomaretto e condivido, con un collega pastore, la cura della comunità e quindi i vari ambiti: la predicazione, la catechesi, la celebrazione di battesimi e funerali e la cura d’anime alle famiglie e agli ammalati. Ho comunque mantenuto un ruolo più “diaconale” grazie a un piccolo servizio di aiuto alle persone in difficoltà che la comunità locale porta avanti.

Un momento della “Clinical pastoral education” (CPE) formazione pastorale clinica. Foto Sergio Manna

Nel mese di ottobre lei ha partecipato al corso Clinical pastoral education” (CPE), con il supervisore, pastore Sergio Manna. Quattro settimane intensive presso lospedale di Genova. Ci può raccontare la giornata tipo?

La nostra giornata tipo cominciava al mattino alle 9, con un culto preparato a turno da uno di noi (3 tirocinanti e il supervisore); seguiva un momento di briefing sulla giornata che avevamo davanti e poi, in genere, si cominciavano le visite ai pazienti nei reparti che ci erano stati assegnati. Alle 13 c’era la pausa pranzo e alle 14 si riprendeva con una parte teorica a cura del supervisore (sui vari aspetti della pastorale clinica) o dei medici delle varie specialità che ci presentavano alcune problematiche legate alle diverse patologie. Alle 15.30/16 si riprendevano le visite nei reparti e si terminava alle 17. Ogni settimana vi erano poi degli appuntamenti fissi che cambiavano un po’ la nostra giornata: ogni tirocinante aveva un incontro individuale di supervisione, c’era la discussione dei verbatim delle visite effettuate e il venerdì si concludeva con un momento di valutazione di gruppo.

Quali argomenti vengono trattati nel corso?

L’argomento principale è quello della cura pastorale ospedaliera che viene affrontata in diversi passaggi: un’introduzione generale, l’ascolto come elemento fondamentale, la diagnosi pastorale ovvero i bisogni e i problemi spirituali dei pazienti, l’identificazione e l’uso pastorale delle risorse, la cura pastorale dei morenti. Argomenti che vengono affrontati anche con l’ausilio di supporti audiovisivi, di verbatim e discussioni di gruppo. In merito agli incontri con i medici specialisti, abbiamo potuto approfondire ad esempio la telemedicina nella gestione del paziente anziano fragile, nuove tecnologie in chirurgia e qualità della vita dei pazienti, il paziente traumatizzato, le problematiche del ricovero sociale, la comunicazione nella patologia neonatale e nei casi di disagio sociale, l’approccio alle dipendenze e ai comportamenti d’abuso, le cure palliative e le cure di fine vita.

Qual è stato per lei laspetto più sfidante?

L’ospedale, in genere, è il luogo dove si viene perché costretti da una situazione clinica compromessa e quindi è un concentrato di sofferenza e malattia e le persone non sempre tornano nelle loro case guarite o con la prospettiva di ritornare alla vita di prima. Non è stato facile entrare nelle stanze dei reparti e ascoltare i racconti, le sofferenze e anche la rabbia di chi non riusciva a farsi una ragione della sua condizione di ammalato. Sono state 4 settimane che mi hanno profondamente segnato dal punto di vista emotivo, ma mi hanno anche aiutato ad affrontare con maggiore serenità queste tematiche.

E quale, invece, il momento più felice?

Potrei rispondere molto facilmente dicendo che i momenti più felici erano le mie visite nel reparto di neonatologia e ostetricia, quando incontravo le mamme che avevano partorito ed era andato tutto bene… ma sarebbe troppo facile! I momenti più felici erano invece quando condividevo la gioia dei pazienti del reparto di medicina che tornavano finalmente a casa, magari dopo essere rimasti settimane in ospedale. Mi ricordo, l’ultimo giorno di visite alla fine del corso, anche l’abbraccio con il marito di una paziente rimasta diversi giorni in coma farmacologico: con lui abbiamo avuto delle belle discussioni sulla fede, ogni mattino passavo nella stanza e lo trovavo accanto alla moglie.

Come spiega lo stesso Sergio Manna in unintervista, questo tipo di formazione è un unicum in Italia. C’è (più) bisogno di Pastorale clinica?

Dopo aver vissuto in prima persona questa esperienza, posso confermare l’assoluta utilità della pastorale clinica. E sono contento che sia ormai parte della formazione di chi si appresta a ricoprire l’incarico di pastore/a o diacono/a nella nostra chiesa. Peccato che le nostre attuali forze non ci permettano di istituire un ruolo di cappellania nei due presidi che ancora gestiamo: Napoli (Villa Betania) e Genova (Ospedale evangelico internazionale). Sarebbe anche bello poter istituire un servizio di cappellania ecumenica, formando adeguatamente i ministri delle diverse confessioni e garantendo così un servizio di qualità negli ospedali.

Da sinistra, Sergio Manna e Massimo Long. Consegna dell’Attestato di “Clinical pastoral education” (CPE)

Se dovesse consigliare a qualcuno questo percorso, cosa si sentirebbe di dire?

Quando ho iniziato la mia formazione per diventare diacono, questa possibilità di formazione non esisteva. Sono però molto contento di averla potuta fare, soprattutto perché mi sarà molto utile per il servizio pastorale che sto svolgendo in questo momento. Mi auguro che la nostra chiesa possa continuare a garantire questa possibilità di formazione per il futuro, magari rivolgendo vocazione affinché altre persone possano formarsi come supervisori. Sarebbe un vero peccato che tutto si fermasse con il pensionamento del pastore Manna.