“Dalla parte di Abele”

Roma (NEV), 23 maggio 2024 – Riceviamo e pubblichiamo.


Di fronte alla drammatica situazione in Medio Oriente, ci siamo incontrati come gruppo di evangelici italiani, appartenenti a diverse denominazioni protestanti, per riflettere insieme e intervenire pubblicamente.

Quanto sta accadendo a Gaza, in questi mesi e in queste ore, è di una gravità inaudita.
La popolazione civile disarmata, in gran parte composta da bambini, donne e anziani, è fatta oggetto di strage da parte dell’esercito israeliano armato fino ai denti, con armi di ultima generazione di provenienza occidentale. In pochi mesi sono morti, a oggi secondo dati Onu, 35.000 palestinesi di cui 14.500 bambini e 9.500 donne. I feriti sono 78.000. La popolazione è allo stremo, privata – a causa del blocco imposto da Israele – persino dei soccorsi umanitari inviati da svariati paesi per sventare carestia ed epidemie. Così facendo l’odio sistematico cresce e si moltiplica fra chi sopravvive. A meno che, nell’intenzione del governo israeliano, non ci sia l’intento di una soluzione finale senza superstiti.
Proviamo orrore per la strage di Hamas del 7 ottobre, per la violenza cieca messa in atto contro la popolazione inerme. L’azione scellerata ha contribuito a fornire al governo di Netanyahu l’occasione per scatenare un’offensiva militare che potrebbe configurarsi come crimine di guerra, aggravando la condizione di minorità e di apartheid in cui versano i palestinesi. Israele è uno stato coloniale instaurato dopo il 1967 in Cisgiordania e a Gaza.
Numerose risoluzioni Onu riconoscono ufficialmente Israele stato occupante poiché tiene sottomesso un popolo, quello palestinese, che da allora vive sotto occupazione militare e reagisce conducendo una lotta considerata dal diritto internazionale lotta di liberazione.
Hamas, il 7 ottobre, ha oscurato questo aspetto fondamentale.
L’azione militare in corso a Gaza, ma anche in Cisgiordania, è sproporzionata, crudele, disperata. Sproporzionata per il numero di vittime e per le distruzioni che sta producendo.
Crudele perché colpisce persone disarmate e vulnerabili. Disperata perché mette in pericolo anche coloro che sono ostaggio di Hamas e con questa politica proietta un’ombra di morte sul futuro di entrambi i popoli.
“Scorra il diritto come acqua e la giustizia come un torrente perenne”, dice il profeta Amos, (5,24) ad un popolo piegato all’idolatria. Questa parola vale per tutti, anche per Israele e per gli stati amici. Senza un riconoscimento dei propri torti e delle ingiustizie commesse non può esservi un futuro, né un’ipotesi di pacifica convivenza.
Molto lontane, invece, appaiono le prese di posizione provenienti dal mondo protestante europeo che continua a considerare Israele una vittima circondata da vicini che non avrebbero altro scopo se non quello di cancellarlo dalla regione. Come credenti evangelici siamo estremamente delusi e scandalizzati dai silenzi, dalle omissioni, dagli equilibrismi che impediscono alle nostre strutture ecclesiastiche e ai nostri leader di nominare esplicitamente quel che oggi accade a Gaza. Le prese di posizione sono timide, arretrate, ambigue. Nel documento della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, il conflitto sembra iniziato il 7 ottobre e non quasi un secolo fa. Nessun riferimento alla politica di colonizzazione di Israele in Cisgiordania che ha reso impraticabile la soluzione dei due stati, nessun riferimento alle violenze dei coloni, alla costruzione di muri, alla distruzione di abitazioni e coltivazioni dei contadini palestinesi obbligati a lasciare il paese per accamparsi negli stati vicini.
L’imparzialità in questi giorni di strage non è più possibile. L’equidistanza avalla le scelte del più forte. Al contrario, proprio in nome di un’amicizia con gli ebrei e con Israele, maturata nei decenni nei quali abbiamo fatto i conti con il nostro grave peccato di antigiudaismo sfociato in antisemitismo, oggi dobbiamo dire con chiarezza i nostri sì e i nostri no, come ci ha insegnato Gesù, perché il di più viene dal Nemico. (Matteo 5,17).
Cosa ci impedisce di dire sì sì, no no come ci viene comandato? Cosa ci impedisce di chiamare strage una strage e massacro un massacro? Cosa ci fa venire meno al nostro dovere di verità e profezia davanti a uno dei più orrendi avvenimenti degli ultimi decenni?
Non possiamo avallare questo clima di “guerra inevitabile” che si sta diffondendo e penetra i nostri discorsi inducendoci a rinnegare la nostra cultura di pace che implica, sì, anche gesti di disobbedienza.
Come chiese abbiamo una lunga tradizione di pratiche nonviolente e di teologie di stampo pacifista. Basti pensare alla teologia dei quaccheri/mennoniti, al pastore battista Martin Luther King, all’attivista e teologa tedesca Dorothee Soelle. Senza dimenticare il coraggio di Nelson Mandela (metodista) e la lotta per la giustizia e contro l’apartheid di Desmond Tutu (anglicano). Dare valore alla loro eredità significa riaffermare con forza che non c’è pace senza giustizia.
E come scordare la decisa presa di posizione di Tullio Vinay, oggi profetica, quando, nel 1982, insignito della Stella dei Giusti, dice all’ambasciatore israeliano: “La mia politica, anche ora al Senato, vuol essere mossa dall’amore per gli altri ed essere perciò soprattutto difesa dei deboli e degli oppressi. In questa occasione, perciò, signor Ambasciatore, mi trova in un campo diverso. Per la stessa ragione per la quale sono stato, anche con gravi rischi, vicino alle sofferenze degli ebrei, non posso ignorare, ora, quelle dei palestinesi. Non si stupisca. Sempre dalla parte di Abele”.
Cosa impedisce ai cristiani evangelici di oggi, di affermare con la stessa chiarezza che
anche noi non ci lasceremo trovare da un’altra parte che non sia quella di Abele?
Il cessate il fuoco, il diritto alla convivenza dei due popoli, sono la condizione per un percorso di riconciliazione. Pronunciare questa parola oggi appare assurdo e offensivo per chi piange i propri morti. Ma come seguaci di Gesù Cristo non ne abbiamo un’altra. La riconciliazione è un difficile percorso che deve fare i conti con la memoria e con i lutti di entrambe le parti.
Ci sono associazioni e movimenti in Israele e in Palestina in cui vittime dell’una e dell’altra parte si incontrano nel loro comune dolore per farsi loro stessi principio di una nuova storia.
Come credenti siamo chiamati ad annunciare verità e giustizia, a difendere il diritto della vedova, dell’orfano e dello straniero. Guardiamo col cuore pieno di angoscia ai rigurgiti di antisemitismo in Occidente. Ma guardiamo con preoccupazione anche a forme di sionismo cristiano che promuovono il dominio di Israele su tutta la Palestina storica a motivo delle antiche promesse di elezione. Gesù Cristo ci insegna che eletto è colui che si pone ai piedi dell’ultimo per servirlo e per restare “prigionieri della speranza” (Zaccaria 9,12).

Massimo Aprile,
Eliana Bouchard,
Simone Caccamo,
Rosario Confessore,
Marco Davite,
Piera Egidi,
Hilda Girardet,
Luciano Griso,
Anna Maffei,
Dario Monaco,
Eric Nofke,
Nicola Pantaleo,
Enrico Parizzi,
Bruna Peyrot,
Gregorio Plescan,
Davide Rosso,
Erica Sfredda,
Pasquale Spinella,
Letizia Tomassone,
Gianna Urizio,
Aldo Visco Gilardi

Qui in pdf il DOCUMENTO Dalla parte di Abele.


Leggi anche il documento “Credere, lavorare e sperare nella pace e nella giustizia”, votato recentemente dall’Assemblea della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI).