Uno sguardo ungherese sulla Casa delle Culture di Scicli

di Benjamin Oros, volontario di Mediterranean Hoper presso la Casa delle Culture di Scicli

Benjamin Oros è un ragazzo ungherese di ventidue anni, cresciuto alla periferia di Budapest. Ha studiato turismo e subito dopo la laurea è partito alla volta della Sicilia, per svolgere un periodo di volontariato presso la Casa delle Culture di Scicli, uno dei presidi dell’accoglienza organizzata da Mediterranean Hope, il programma sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questo mercoledì lo “Sguardo dalle frontiere” è una “pagina di diario” di uno straniero che vive il suo periodo di volontariato alla Casa delle Culture.

Vivo e lavoro con altre due volontarie, stiamo imparando a conoscerci e a stare insieme, in giorni in cui tutti e tre ci troviamo a sperimentare qualcosa di unico e mai provato nella nostra vita. Siamo fortunati: facciamo un bel lavoro, insieme a grandi persone e in un posto meraviglioso, Scicli. Vivo qui da poco più di due mesi e già posso affermare di preferire lo stile di vita che ho trovato qui rispetto a quello che ho lasciato a casa. Qui in Sicilia vivono in maniera completamente diversa, con meno stress e più amore. Le persone sono veramente cordiali, e sin dal primo giorno.

Alla Casa delle Culture lavoro con adolescenti migranti. Ho appena cominciato a conoscerli ma già porto dentro di me diversi ricordi ed esperienze. Due volte a settimana teniamo per loro un corso di inglese: oltre all’italiano, tutti i ragazzi tengono molto a imparare l’inglese, quindi arrivano motivati, perché vogliono partecipare, non perché viene detto loro di farlo. Alcuni di loro non sanno ancora utilizzare le lettere latine, e questo per me è davvero una sfida, perché voglio che tutti scrivano sul loro quaderno le cose più importanti, e in questi casi specifici l’operazione richiede moltissimo tempo. Ad ogni modo, i miei sforzi vengono sempre apprezzati e ripagati dall’impegno degli “studenti”! Una ragazza in particolare sta avendo difficoltà, perché non sapeva né leggere né scrivere; quando ho cominciato ad aiutarla ho aperto gli occhi sul fatto che quando non la si apprende da piccoli, la lettura è un’attività complessa. E’ ovvio, ma non ci avevo mai pensato. Adesso riconosce la maggior parte delle lettere presenti in un testo, non scorderò mai la gratitudine impressa nei suoi occhi quando ne indica e ne nomina una.

Quando ero arrivato ero un po’ “cauto”, chiuso, sulla difensiva; ora invece la loro diversità, di storia e di vita, non mi genera più timori. Viviamo insieme come una grande famiglia, giorno dopo giorno stiamo riuscendo a conoscersi; non solo tra ragazzi, ma anche tra operatori. Trovo meraviglioso il fatto che gli operatori di Mediterranean Hope non vivano separati da noi, volontari e migranti della Casa. Hanno loro la responsabilità, ma non ci fanno avvertire nessun gradino, nessuna superiorità, e questo mi piace molto! La parte più stressante della giornata è quando si cucina. I ragazzi sono giovani e hanno sempre fame, anche se prepariamo sempre per tutti sono attanagliati dall’idea che se non corrono il cibo per loro non ci sarà più. Anche questo comportamento, che io data la mia storia non avrei, mi ha dato molto da pensare.

Il momento della giornata che più mi piace è il turno serale; capita che tutti insieme, operatori, volontari e ospiti guardiamo un film come fossimo in un cinema: abbiamo un proiettore, uno schermo e talvolta anche i popcorn. Spesso il turno finisce, e il volontario o l’operatore rimangono dove sono, a chiacchierare con i ragazzi. No, la Casa delle Culture non è soltanto un luogo di lavoro.