Roma (NEV), 11 ottobre 2017 – La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” è a firma di Paolo Naso, coordinatore di Mediterranean Hope e Alberto Mallardo, operatore di MH a Lampedusa
Ogni anno Lampedusa deve fare i conti con il 3 ottobre, la Giornata istituita per fare memoria delle vittime delle migrazioni. Le commemorazioni di quest’anno, però, sono state le prime dopo gli accordi del Governo italiano con alcune istituzioni libiche, finalizzati a fermare i flussi verso l’Italia. Naturale, quindi, che a margine delle cerimonie, delle visite e dei vari incontri che hanno avuto luogo sull’isola, ci si chiedesse se e in che misura questa strategia ha funzionato.
Alcune risposte le ha date il Convegno internazionale “Vivere e testimoniare la frontiera”, organizzato dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) e dal suo programma per i rifugiati e i migranti, Mediterranean Hope, svoltosi a Palermo e Lampedusa tra il 30 settembre e il 4 ottobre.
È vero: i flussi sono drasticamente rallentati, ma non perché si è esaurita la pressione migratoria ma perché migliaia di persone sono state “intrappolate” in Libia, in campi nei quali nessuno -neanche le autorità internazionali – può verificare le condizioni di vita e il livello di tutela dei diritti umani. Solo il tempo dirà se questo “tappo” reggerà e a quale prezzo umano e morale.
Ma sia il Convegno che l’osservazione a Lampedusa hanno reso evidente un altro dato: come un sistema di vasi comunicanti, bloccata una via di uscita la pressione aumenta in altre direzioni.
Lo percepiamo chiaramente a Lampedusa dove, negli ultimi giorni, sono sbarcati centinaia di tunisini che, di fatto, hanno riaperto una rotta antica che sembrava destinata alla chiusura. Altri sbarchi si sono registrati in vari porti siciliani e il grave incidente del 9 ottobre al largo di Malta in cui sono morti 9 migranti conferma un “cambio di rotta” che non è affatto detto che escluda Lampedusa. L’isola resta una meta e l’hot spot continua a ospitare chi sbarca. Così come Mediterranean Hope e le altre associazioni del “Forum Lampedusa solidale” continuano a svolgere le loro attività di accoglienza al molo Favaloro.
Il 3 ottobre sull’isola sono arrivati ministri e artisti, associazioni e studiosi, attivisti e forze dell’ordine. Insomma per un giorno all’anno l’Italia si è ricordata di questa piccola isola più vicina all’Africa che all’Italia, il confine più meridionale del nostro Paese.
L’ambiguità delle celebrazioni sta tutta qui, in questa eccezionalità effimera che scema il giorno dopo e si dimentica per il resto dell’anno.
Tra le cose più tristi che ci capita di vedere ci sono i “selfie “del 3 ottobre, scatti di ipocrisia e strumentalizzazione della fatica di un’isola che cerca di essere normale. È questo lo sforzo del nuovo Sindaco e di quanti altri chiedono che, ad esempio, si rispettino le norme che prevedono che la permanenza nell’hot spot sia limitata a 72 ore, evitando di trasformare una struttura inadeguata in centro di accoglienza.
Certo, i flussi cambiano e noi ce ne stiamo accorgendo. Arrivano giovani, meno subsahariani, e più dai paesi nord africani, specialmente dalla Tunisia. Solo nelle ultime 48 ore sono arrivati autonomamente sulle coste dell’isola circa 650 persone partite dalla Tunisia. Ma Lampedusa resta, con le sue paure, le sue sfide, le sue memorie e i suoi simboli. E per questo la Federazione delle chiese evangeliche in Italia ha deciso di mantenere questo avamposto del suo programma per i rifugiati e i migranti. Perché condivisione e accoglienza non siano il bel gesto di un giorno all’anno.