Lettera maiuscola

La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Beirut ed è stato scritto da Marta Barabino

Roma (NEV), 6 febbraio 2023 – Avevo concluso con un Punto e a capo. Ora inizio con una lettera maiuscola.

Libano, Beirut. Hanno tutti un amico o un’amica a Beirut, e se voglio li ricontattano così ci possiamo incontrare! “Anche se in realtà non so se sia ancora lì… va beh io lo sento e ti faccio sapere!”: questa è la reazione del 70% delle persone a cui ho detto che sarei partita per Beirut, tutti lavoratori e lavoratrici del terzo settore o della cooperazione, ovviamente. Alla fine, siamo 4 gatti, sempre gli stessi, che girano alla ricerca del disagio più grande, della situazione più grave, del disastro appena accaduto.

Il Libano è un po’ il miscuglio di queste tre cose. Solo nella capitale ci sono tante ONG, associazioni, progetti, da poter ritirare su un sistema che è crollato. Ma questo sistema non è affatto crollato, è appeso a un filo, una barca che sta per affondare ma non affonda, una guerra che potrebbe scoppiare ma non scoppia.

Beirut è come me l’immaginavo, bella e decadente, così la descrivo a tutti. Nelle strade si respira la nostalgia e la disillusione di un passato luminoso che c’è stato, e l’hanno visto tutti, ma che non tornerà. Non prossimamente almeno. La dignità e la voglia di mantenere quell’immagine di una città che funziona, che può ancora dialogare con l’Europa, che grazie all’influenza forte dell’inglese e del francese è agevolata in questo suo mischiarsi con l’Occidente che è così vicino e così lontano allo stesso tempo. E mi ricordo le parole di De André raccontando la sua scoperta del mondo attraverso la musica: “si stava parlando un idioma diverso, un idioma comunque mediterraneo. Non un mediterraneo completamente nostro, un mediterraneo di tutti. Difendere la cultura etnica vuol dire difendere anche al plurale le culture etniche. E si sa benissimo che perdendo la lingua, un popolo, oltre che perdere la propria cultura, perde anche probabilmente un po’ di dignità.”

Ma l’identità, così come la dignità, qui non è stata persa affatto. È un crocevia di andate e ritorni, di nazionalità e appartenenze, ma il sapore è uno.

Le strade sono sempre piene, trafficate, i clacson non si fermano soprattutto nelle ore di punta. Lo smog non si può neanche descrivere. Arrivando da città “pulite” da questo punto di vista, è intollerabile. La gente si inventa i lavori, i ragazzini trovano occupazioni informali per guadagnare qualche lira, sono tanti i giovani, laureati o iscritti all’università, che mantengono la propria famiglia. La dignità, dicevo, la si vede negli anziani che girano per il quartiere, e che tra una commissione e l’altra passano nel nostro ambulatorio per recuperare le medicine, perché ormai con l’inflazione costano troppo e non riescono più a pagare tutto. Penso ai miei nonni, a come potrebbe diventare difficile per loro affidarsi a un servizio di beneficienza e ammettere a loro stessi che nonostante anni e anni di lavoro e di risparmi non riescano a pagare le pastiglie per il cuore, per la pressione, per il colesterolo. Perché sono anche “le cose normali” della vecchiaia che vengono curate nella nostra clinica, che chiamiamo così solo perché in inglese non esiste la traduzione di ambulatorio.

Poi, ci sono anche i casi “difficili”, in cui l’unico pensiero che mi balena in testa dopo aver seguito il consulto medico è: piove sul bagnato. E quanto è vero. La vita si accanisce con certa gente, e non capiremo mai il perché. L’idea che mi torna in mente ogni volta è che non devo assolutamente abituarmi a ciò che vedo e a ciò che sento. Ed è faticoso perché significa rendersi sempre vulnerabile, sempre aperta a farsi colpire a qualcosa di brutto, di peggiore. Non voglio abituarmi a vedere i bambini rovistare nei mucchi di spazzatura in mezzo ai gatti randagi, non voglio abituarmi a pensare che il razzismo è una cosa normale e consolidata, tanto da rinchiudere intere generazioni in un quartiere che si è costruito da solo, è cresciuto insieme alla sua popolazione, ghettizzata ed esclusa. Non voglio dimenticarmi che c’è chi è andato via dalla Siria qualche anno fa e non ha mai più messo piede in una scuola, da quando ha lasciato casa sua. Che anche a 8 anni si può soffrire di depressione, e in quegli occhi si vede solo il vuoto, ed è evidente che il tempo scivola addosso a quel corpo di bambino che dentro porta una memoria e un’esperienza di vita cruda e adulta.

Ma per vivere in luoghi come questo è importante entrare nei meccanismi culturali e sociali delle persone che incontro, capire cosa regola questa città e i suoi movimenti, conoscere chi conosce meglio di me, chi ha vissuto sulla sua pelle ciò di cui io posso solo essere spettatrice o ascoltatrice.

È importante conoscere chi è stato aiutato e adesso aiuta, chi aveva bisogno e ora assiste e ascolta. E ricordarsi che tanti di quelli che aiutano sarebbero i primi a volere andare via, a uscire da quella miseria ridondante con cui si scontrano tutti i giorni, da quella fatica di vedere i propri vicini, i figli dei propri coetanei rimanere incastrati a causa della povertà o della burocrazia, e che per colpa delle politiche resteranno bloccati là proprio come loro.

È già stato nominato qualche volta il “passaporto europeo”, quello grazie al quale io, come tutti gli altri italiani e non solo, facciamo i pendolari tra Europa e Medio Oriente, perché alla fine basta un timbro; e c’è un po’ di risentimento in quelle parole, spesso dette scherzosamente per smorzare, ma il “peso del privilegio” si fa sentire tutto.

A Lampedusa davo il benvenuto, era casa dopotutto; qui sono ospite, e in quanto ospite mi sento in dovere di entrare in punta di piedi, senza scarpe, nella casa degli altri. Entrare con delicatezza per esplorare le dinamiche sottintese e a me ancora sconosciute di una popolazione ancora speranzosa di risollevarsi, per quanto possibile, o di alleggerire i pesi di chi è rimasto indietro. Esplorare l’ambiente giovane e scoppiettante della clinica, che va avanti un po’ “alla giornata” ma che dà respiro e stimolo a una generazione giovanissima che si è ritrovata per le mani una Beirut spezzata dall’esplosione, un’economia in crollo, una montagna di bisogni e di richieste.

“Sarà difficile, ma sarà come dev’essere”, dice una canzone.

Intanto, è ritornato il sole e il mio percorso è appena iniziato, quindi serve solo rimboccarsi le maniche.