Roma (NEV), 13 marzo 2023 – di Peter Ciaccio – “Il mio viaggio è cominciato su un barcone, ho passato un anno in un campo profughi e in qualche modo sono finito qui sul palco più importante di Hollywood; dicono che le storie del genere succedono solo nei film, non riesco a credere che stia succedendo a me“. Le parole più importanti della notte degli Oscar le ha pronunciate Ke Huy Quan, vincitore della statuetta per il miglior attore non protagonista, premiato per la sua straordinaria interpretazione di Waymond Wang in Everything Everywhere All At Once.
L’attore nacque in una famiglia numerosa nel 1971 a Saigon (l’attuale Ho Chi Minh), ma ne fuggì nel 1978. Insieme al padre e a cinque fratelli si rifugiò in un campo profughi a Hong Kong, mentre la madre e altri tre fratelli trovarono rifugio in Malaysia, probabilmente nel campo dell’isola di Bidong. Nel 1979 tutta la famiglia fu accolta negli Stati Uniti nell’ambito dei programmi di trasferimento dei rifugiati del governo Carter.
Ke Huy Quan era, dunque, uno dei boat people, le circa 800mila persone partite dal Vietnam comunista e arrivate sane e salve nei pochi campi profughi dislocati nei paesi bagnati dal Mar Cinese Meridionale. Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, morirono in mare tra i 200 e 400mila profughi.
Quan iniziò la carriera di attore da bambino, come co-protagonista in Indiana Jones e il tempio maledetto (1984) e I Goonies (1985). In seguito non fu più scritturato per alcun ruolo di rilievo, come se da adulto non servisse più un “cinese”. Si mise allora a studiare cinema e a lavorare soprattutto nell’ambito della produzione, finché i registi Daniel Kwan e Daniel Scheinert non lo hanno ingaggiato per il film che ha trionfato ieri sera agli Oscar.
Raccontare l’epopea di Quan, da profugo su un barcone agli effimeri riflettori sul bambino prodigio e poi ancora dall’oblio fino al trionfo la notte degli Oscar, non è una divagazione, sia perché oggi parlare di profughi sui barconi non è mai una distrazione sia perché la storia di Quan spiega in qualche modo il successo di Everything Everywhere All At Once.
Il film che ha vinto sette statuette ieri sera (e numerosi altri premi negli ultimi mesi) ha avuto l’attenzione di molti non perché raccontava il multiverso, come si è letto in giro, ma perché parlava in maniera originale, sorprendente e spettacolare (difficile vedere questi tre attributi insieme) della fragilità e precarietà dell’essere umano come individuo e come comunità. La precarietà è data dalle conseguenze subite a causa delle scelte fatte, anche quelle apparentemente insignificanti. La fragilità è data dal rimuginarci sopra: “Ho fatto bene? E se invece avessi fatto così, come sarebbe adesso la mia vita?“. È un rimuginare che può diventare ossessione e portare al collasso della psiche, alla depressione, alla distruzione delle relazioni che contano, alla fine dell’amore e della felicità.
In un’epoca caratterizzata da una forte alienazione, da radicalizzazioni violente, dalla crisi della politica e della comunità, dai timori per il lavoro e per la salute del pianeta, senza dimenticare i postumi post-pandemici e la paura della guerra vicina, non è difficile comprendere come Everything Everywhere All At Once abbia parlato al cuore di così tante persone.
Cosa pensavano i genitori di Quan quando nel 1979 si sono separati per portare in salvo la famiglia? Stiamo facendo bene? Non è meglio restare qui? E se non sopravviviamo alla traversata? E se sopravviviamo ma ci ricacciano indietro? E se non dovessimo più ritrovarci?
Un film funziona se nel pubblico scatta l’empatia. Infatti, a pensarci bene, a chi non è successo di sentirsi crollare tutto addosso, come se ti stesse capitando “Tutto, ovunque, tutt’insieme“?