1° maggio e lavoro: le domande che dobbiamo porci

Molti i cambiamenti intercorsi negli ultimi decenni: resta nel pensiero protestante un riferimento alla dimensione del servizio

Disegno di Francesco Piobbichi


I
l mondo è cambiato. Il paese è cambiato. Il lavoro è cambiato. Dove tutto ruotava intorno alle fabbriche, ora prevalgono il terziario e l’alta tecnologia. È cambiato il diritto del lavoro. Sono cambiate le organizzazioni dei lavoratori. Lavori sono scomparsi, di nuovi ne sono stati inventati. L’immigrazione interna, che aveva caratterizzato il boom economico, è stata sostituita da quella da altri paesi. Il modello del welfare, con il suo Sistema sanitario nazionale istituito in Italia nel 1978 e con le sue misure previdenziali, al tempo stesso prodotto del lavoro produttivo e sua sponda, appare oggi in crisi… Se ci guardiamo intorno, ci colpiscono innanzitutto fattori negativi: la mortalità sul lavoro, il lavoro nero mai debellato, il lavoro mal retribuito o precario, il discriminatorio trattamento del lavoro femminile, la disoccupazione… Non è quindi un caso che la Federazione delle chiese evangeliche in Italia abbia quest’anno proposto, per la Settimana della libertà, proprio il tema del lavoro.

Al di là della Settimana, di lavoro hanno trattato e tratteranno convegni e pubblicazioni, organizzati da Commissioni della Federazione, ma anche da centri culturali protestanti.

Il nesso tra libertà e lavoro è chiaro: secondo la tradizione protestante e anche secondo alcune formulazioni della Costituzione italiana, il lavoro è uno strumento di libertà e di servizio insieme, strumento di crescita sociale e di costruzione di una comunità coesa e proiettata verso lo sviluppo economico, morale e civile.

Perché, come chiese, occuparsi del lavoro e dei suoi problemi? Mi sembra che ci siano almeno tre ambiti nei quali non solo possiamo, ma dobbiamo farlo. Se lavoro vuol dire libertà e dignità, e la sua assenza o il suo degrado comportano rovina e marginalità, c’è un fronte per la diaconia, anche nella dimensione della denuncia.

C’è poi una dimensione culturale, che ha sempre caratterizzato il nostro discorso pubblico. Di fronte ai cambiamenti anche radicali che viviamo (pensiamo a esempio alla intelligenza artificiale, alla finanza) e in un clima in cui, dalla perenne propaganda politica alla comunicazione, le percezioni prevalgono sull’analisi dei fatti e dei dati, le polemiche sui ragionamenti, la affermazioni perentorie sui ragionamenti e le argomentazioni, c’è bisogno di pensiero, di pensiero storico e critico – mentre tutto sembra giocarsi sul mio presente. Con quale elaborazione (non a caso il termine richiama un lavoro…) andiamo incontro alle crisi del nostro tempo? Con quale consapevolezza della storia del lavoro, con quali visioni che non siano rimpianto o utopia, ma progetto concreto e coinvolgente?

La mia generazione entrava nell’età adulta facendo convintamente propria quella che un tempo era facile definire l’etica protestante del lavoro: un intreccio di vocazione, responsabilità, impegno, creatività. La imparavamo fin da bambini. La spinta ad assumere nella vita una postura responsabile e costruttiva, per la realizzazione di sé e per la costruzione di un mondo sensato, aveva così nel lavoro una sua dimensione essenziale. Il lavoro ci aspettava, per così dire. Ma nel contesto di oggi, che ne è di tutto questo? Una preziosa eredità da ripensare? Oppure il ricordo di un mondo tramontato? Che cosa possiamo dire di teologicamente sensato sul lavoro? Anche noi siamo esposti alla tentazione del biblicismo, cioè di piluccare i versi della Bibbia che più ci paiono evocare ciò che vorremmo dire o sentirci dire.

Tante domande. È proprio quando non ci sono risposte pronte, che bisogna fare domande.