Un’ “isola” per i morti nel Mediterraneo

L'artista e performer Fabio Saccomani ha iniziato un'installazione lo scorso 10 dicembre, Giornata per i diritti umani, che concluderà il 20 giugno, Giornata mondiale del rifugiato. Al centro del progetto, i nomi di tutte le vittime del Mediterraneo, scritti sul selciato dell'isola pedonale del Pigneto, a Roma

Roma (NEV), 24 dicembre 2019 – A Roma c’è una via che gli abitanti del quartiere, il Pigneto, chiamano “l’isola”. E’ l’isola pedonale al centro del rione, uno dei luoghi più frequentati della città, soprattutto dai giovani. Ed è proprio sulla pavimentazione di quell’isola che l’artista e performer Fabio Saccomani ha scelto di raccontare, a suo modo, le storie dei migranti morti nel Mediterraneo. Gli abbiamo chiesto di spiegarci come e perchè ha scelto di scriverne i nomi, 37mila, sul tratto pedonale del Pigneto.

Come hai avuto questa idea?

Il progetto è nato da un punto di vista tecnico ed estetico a partire da una motivazione soggettiva. Mi è capitato di viaggiare in paesi come il Niger e la Costa d’Avorio, di lavorare in centri d’accoglienza, e il tema del rapporto coloniale è in buona sostanza sempre stato al centro della mia vita, delle mie letture. Esso tematizza il rapporto con le latenze della nostra società rispetto all’alterità. Ho maturato quindi una sensibilità verso questi temi.

L’evento scatenante è stato poi l’aver visto la foto di Alan Kurdi (il bambino curdo siriano ritrovato morto nel 2015, il cui cadavere è diventato simbolo delle morti in mare, ndr), mi sembrava di vedere mio nipote che dormiva. Il quotidiano il manifesto pubblicò a un certo punto la lista di quelle che erano all’epoca 34mila persone morte nel Mediterraneo, quando vidi quell’elenco pensai a quanto fosse terribile che quelle persone fossero rimaste senza identità.

Ho pensato che avremmo dovuto mettere i loro nomi al centro della città, realizzare un monumento funebre in un luogo il più possibile transitato da persone. Perché un monumento funebre parla del passato ma è come se mettesse allo stesso tempo una pietra sopra, affinché non si ripeta mai più. Volevo esprimere il riconoscimento di quanto accaduto, perché la narrazione dominante è quella delle morti in mare come una tragedia, senza responsabilità di qualcuno in particolare, mentre secondo me è frutto di precise scelte politiche e dell’incapacità dell’Europa di raccogliere una sfida che potrebbe darci uno slancio identitario nuovo. Un’Europa che potrebbe raccogliere la parte “buona” della nostra tradizione, e ricreare un ‘noi’ a partire dall’accoglienza e non dalla separazione tra ‘noi’, appunto, e ‘loro’. Ed è infine un’opera che non si chiude, che non termina, non finisce, così come purtroppo continuano, ogni giorno, le morti delle persone che tentano di migrare.

Come realizzerai l’opera?

Abbiamo iniziato a scrivere una prima manciata di nomi con una vernice che si vede solo quando piove. L’obiettivo è “giocare” sul doppio binario del visibile/invisibile, mi interessava riuscire a far camminare le persone su una distesa di morti, “senza vederli”. E poiché purtroppo la stragrande maggioranza dei morti è avvenuta nel mare, l’elemento dell’acqua li riporta a galla, simbolicamente, anche.

Si tratta di un’opera collettiva: perché?

Stiamo raccogliendo una rete di partner con cui faremo altri eventi di scrittura. Di fatto, essendo moltissimi nomi, è un progetto che si scrive a più mani, in vari momenti di scrittura collettivi. Il primo evento di questo tipo si è già svolto, lo scorso 10 dicembre, vi hanno partecipato circa 20 persone, volontarie, coinvolte tramite l’associazione culturale Martelive. Mi piacerebbe molto, nei prossimi mesi, coinvolgere le comunità di immigrati residenti nella zona, così come le scuole del territorio. Partecipare al gesto di ricordare queste persone è un atto di memoria, e mi sono reso conto che il momento in cui si imprime, si scrive materialmente un nome, è molto forte, soprattutto per chi lo fa.

Quali sono state le prime reazioni del pubblico di fronte a questo progetto?

Abbiamo ricevuto prevalentemente complimenti e l’attestazione che sia stata una bella iniziativa, da parte di tante persone. C’è stato anche qualche commento di segno differente, arrivato per lo più sui social, sull’onda del “prima gli italiani”. Penso però che anche questi commenti siano necessari. Non credo infatti che un’opera, un’azione o un’idea sia giusta in sé e possa riscuotere un successo universale; se lo fa forse è anzi un problema, se non genera conflitto è eccessivamente ammiccante. Credo che il conflitto sia da gestire, rispetto chi la pensa diversamente da me, questo mi dà modo di rinsaldare le mie priorità e lottare affinché possano emergere ed essere rappresentate. La democrazia funziona così.

A Lampedusa, uno dei luoghi in cui MH lavora, lo scorso 3 ottobre, è stato inaugurato il memoriale con i nomi delle vittime del naufragio del 2013. C’è un filo che lega quest’opera alla tua?

Mi fa molto piacere che ci sia ques’opera e questo tipo di connessione. L’esigenza di ridare un nome è particolarmente importante per due ragioni: la prima è che siamo in una condizione un po’ babelica, con un appiattimento del linguaggio e della capacità di nominare le cose, le persone. Facendo teatro, rileggendo Carmelo Bene, mi rendo conto di come probabilmente il linguaggio fosse più complesso, in passato, anche in televisione. Il nome dà quindi senso, accompagna e colloca le persone, consegna uno spazio ben preciso a dei “fantasmi”. La seconda motivazione è che scrivere i nomi dei morti significa dare identità a queste persone, perché, date le circostanze di colonialismo e di grande rimozione collettiva dei naufragi, i migranti tendono ad avere un barlume di esistenza solo nell’atto di morire. E’ come se scomparissero, siamo ormai in qualche modo anestetizzati ai morti, in una dinamica di profonda disumanizzazione: perciò dare il nome a “loro” significa a mio avviso riconoscere anche chi siamo “noi”.

Quale sarà il tuo prossimo lavoro?

Dopo il 20 giugno vorrei riprodurre la stessa installazione in altri luoghi, a Lampedusa magari. Intanto sto lavorando ad altri progetti, in particolare sulla simbologia religiosa. Mi interessa replicare la dinamica del ‘nascondersi e svelarsi’ dei nomi delle persone morte, affinché questi nomi, le loro storie e quello che rappresentano, restino, nella memoria collettiva.