Lampedusa (NEV), 18 novembre 2020 – Nelle prime due settimane di novembre ci sono stati innumerevoli sbarchi ai moli di Lampedusa. La prima settimana del mese gli arrivi si susseguivano, giorno e notte, piccole barche dalla Tunisia e barconi o gommoni dalla Libia con molte persone a bordo. La seconda settimana sono arrivate meno barche, più cariche però, e le persone a bordo erano spesso deboli, bagnate e infreddolite.
In questo contesto, il Covid-19 appare ancora di più come il fattore regolatore di tutte le azioni sociali, degli interventi di salvataggio e di accoglienza, della visione della vita e del lavoro. La consapevolezza del rischio latente e invisibile, eppure continuo e onnipresente, frena e modifica il modo di pensare, di agire e di interagire. Anche durante uno sbarco o un salvataggio in mare, le precauzioni e le interazioni sono interamente dettate dal rischio di contagio da Covid-19: la distribuzione di mascherine, l’uso di guanti e di dispositivi di protezione per tutto il personale presente, il controllo sanitario preliminare – che consiste nella misurazione della temperatura e la verifica della presenza di scabbia e altre malattie infettive – costellano le relazioni al molo. Questo collegamento tra il mare e la terraferma è segnato dall’assenza di possibilità di arrivare in modo dignitoso sul continente europeo. L’assenza delle navi di ONG per la ricerca e il soccorso in mare espone ancor di più la vita delle persone al pericolo durante la traversata della rotta del Mediterraneo centrale, una delle più pericolose al mondo. Spesso al molo di Lampedusa arriva anche chi non ce l’ha fatta, altre volte i corpi scompaiono tra mare e memoria.
Nell’arco di pochi passi mentre si offre dell’acqua a chi è arrivato, le parole tra sconosciuti creano un legame che spesso si esprime con uno sguardo. A volte ascoltiamo i racconti delle persone: la descrizione della partenza, della situazione lasciata alle spalle. Per chi parte dalla Libia le parole ricorrenti “sono stato schiavo, io sono qui ma quanti sono rimasti…”.
Un anno in Libia basta per vedere più di una vita intera. Un uomo che non riesce a camminare autonomamente a causa di fratture agli arti mai guarite, una donna ustionata, ossa rotte e steccate in modo rudimentale, ferite richiuse con punti di sutura metallici, gravidanze a termine. Quando si offre una coperta termica o un bicchiere di tè caldo a una persona appena arrivata, dandole il benvenuto e chiedendo come sta, riceviamo in risposta: “bene grazie, e tu?”.
Camminare su questo molo non è un semplice attraversamento di un punto di frontiera compreso tra mare e terra. Si tratta di un incontro tra persone che condividono sentimenti, sentimenti che scavano nel fango torbido delle contraddizioni e delle ingiustizie. Sono incontri che (in)segnano e che per questo rendono testimoni degli avvenimenti del nostro tempo. Come tali, cambiano la vita delle persone che porteranno con loro quegli istanti. Anche il molo è testimone: scenario del passaggio dei pescherecci stipati di persone nelle stive per pesci, delle persone scese dai gommoni, della preghiera in ginocchio di chi ringrazia per essere arrivato, di chi alza le mani al cielo in segno di vittoria.
In fondo, molto è già stato detto in questi giorni, l’abbiamo letto, sentito, spesso a sproposito. Ma non ci si è fermati a riflettere, non si è cercato un confronto. E allora, più di mille parole, più e soprattutto contro la strumentalizzazione di tragedie da parte di soggetti politici e giornali, ci auspichiamo di iniziare una riflessione con il silenzio e che da questo scaturiscano poi i fatti, e non le parole. Parole a volte inutili a cui parte della società civile lampedusana tra cui il Forum Lampedusa Solidale ha contrapposto un silenzio di empatia e solidarietà al cimitero di Lampedusa, stringendosi attorno alla giovane mamma di Yusuf durante la sepoltura del bimbo di sei mesi, morto in mare sulla Open Arms. Alcune cose non si possono curare. Prevenirle, sarebbe possibile.
*Nota. Tra il 01.11 e il 15.11 all’hotspot dell’isola sono arrivate più di 3.500 persone, tra le quali più di 300 donne e quasi 400 tra minori e bambini. A fronte di una capienza di 195 persone, il numero di migranti al suo interno ha superato quota 1300.