Palestina, un’utopia per superare la sofferenza

Articolo di Luciano Griso, da Riforma: "Le condizioni di vita della popolazione palestinese sono sempre più drammatiche. Urge una soluzione innovativa".

Ni'lin. Foto di Nadia Angelucci

Roma (NEV/Riforma.it), 16 gennaio 2023 – di Luciano Griso – “Qui a Shatila (campo profughi palestinese-Beirut) vive ormai la terza/quarta generazione di profughi palestinesi – mi dice Majdij –: io stesso ne faccio parte, dopo che nel 1948 con la proclamazione unilaterale dello Stato di Israele e la guerra che ne seguì i miei avi furono costretti con la forza ad abbandonare la loro casa in Palestina‚, continua, mentre mi offre un caffè nell’intervallo fra una visita medica e l’altra che Medical Hope offre agli anziani del quartiere. Siamo nella sede dell’Associazione Basket Beats Borders fondata da Majdij, cinquant’anni portati orgogliosamente, qualche anno fa e sostenuta dalla Ong italiana Unponteper, con lo scopo di promuovere l’attività sportiva fra bambini e adolescenti, maschi e – cosa molto importante – femmine. Solo chi conosce la realtà di Shatila, fangosa o polverosa a seconda delle stagioni, può rendersi conto delle enormi difficoltà, logistiche e sociali, che un’iniziativa del genere comporta. “Vogliamo educare ragazzi e ragazze alla cooperazione, alla lealtà e all’impegno, opporci alla miseria e all’abbandono in cui i nostri figli sono obbligati a vivere qui, educarli a lottare per i propri diritti e per una Palestina libera dove chi lo desideri possa in futuro fare ritorno come a casa propria”.

Il diritto al ritorno nella terra da cui furono scacciati od obbligati a fuggire durante le guerre fra Israele e i Paesi Arabi, e il diritto ad avere una Patria in cui riconoscersi (i Palestinesi sono classificati come apolidi) – diritti affermati dall’Onu con deliberazione 194/1948 – sono temi che si rincorrono inseparabili nelle conversazioni con i palestinesi in Libano. “Ma ormai – aggiunge Majdij – siamo soli, tutti si sono dimenticati di noi, anche i Paesi Arabi ci hanno abbandonati in cambio di un accordo con Israele» (il c.d. Patto di Abramo). È così che un diritto esigibile, quello di poter tornare nella propria terra, viene trasformato, nel disinteresse generale, in una sorta di aspirazione sentimentale.

Se questo avviene nella diaspora libanese, la situazione non è certo migliore in terra di Palestina. Qui è ormai chiaro a chiunque voglia vederlo che la soluzione prospettata dagli Accordi di Oslo (1993), «due popoli, due Stati» non solo è in una fase di stallo, come ipocritamente si scrive su molta stampa, ma è ormai resa impraticabile dalla continua costruzione di colonie israeliane in Cisgiordania, malgrado risoluzioni dell’Onu le dichiarino illegali. Infatti, le strade che collegano gli insediamenti, riservate solo agli israeliani, i muri, i posti di blocco hanno trasformato la Cisgiordania in una miriade di mini-bantustan rendendo impossibile quella continuità territoriale che è alla base della esistenza di una Stato.

Non sorprende dunque che una recente indagine documenti che solo il 32% di israeliani e il 37% di palestinesi creda ancora nella ipotesi dei due Stati. Non solo, ma l’incancrenirsi durante i decenni di una situazione di occupazione a cui non viene prospettato alcuno sbocco realistico, rischia di portare a ulteriori, gravi conseguenze. Un sondaggio effettuato dal Palestinean Center for Policy registra infatti un cambiamento radicale nella opinione pubblica palestinese rispetto alla lotta armata: il 72% si è detto favorevole alla nascita di gruppi armati di autodifesa (a fronte del 40% di dieci anni fa). Le cause, a parere dei ricercatori, andrebbero cercate nei continui raid diurni e notturni dell’esercito israeliano in territorio palestinese, nell’alto numero di vittime – circa duecento i ragazzi uccisi durante il 2022, migliaia i feriti e gli imprigionati (bambini che lanciano pietre compresi) – nell’abbattimento coi bulldozer di edifici, case, scuole di proprietà palestinese. Specchio di una condizione senza speranza è il preoccupante aumento del numero dei palestinesi che sceglie come via di fuga la via del mare, documentato dal triste conteggio dei morti annegati.

La vita miserabile dei palestinesi della diaspora, il fallimento degli Accordi di Oslo, l’aggravarsi della situazione politico-sociale in Palestina spingono a cercare soluzioni nuove. La più interessante, che si sta facendo strada a diversi livelli politico-diplomatici, è quella della creazione di uno Stato unico per ebrei, palestinesi, musulmani e cristiani all’interno dei confini della Palestina storica. Quella di uno Stato democratico, aconfessionale, laico, inclusivo, che abbia come obiettivo l’uguaglianza fra tutti, riconosca che ebrei e palestinesi sono “condannati” a condividere lo stesso territorio, che l’espulsione degli uni o degli altri è impossibile e che dalla convivenza pacifica tutti hanno da guadagnare.

Mi rendo conto che questa ipotesi – con un governo israeliano di ultradestra come l’attuale e fazioni palestinesi irriducibili – conta tenaci avversari in un campo e nell’altro, e può essere considerata un’utopia. Un’utopia però entrata nel campo del possibile, visto che si comincia a discuterne. Senza contare che proprio l’utopia, e noi credenti ne sappiamo qualcosa, potrebbe talora essere considerata l’unica “opzione veramente realistica”.