Riparare il danno irreparabile

Un approfondimento su come superare traumi, disagi e conflitti sociali con la direttrice del Centro diaconale “La Noce” di Palermo, Anna Ponente

Immagine generata con GPT-3, modello di generazione del linguaggio su larga scala di OpenAI - openai.com (E.R./NEV)

Roma (NEV), 8 marzo 2023 – “In un’ottica riparativa, ogni conflitto va affrontato nel campo del piccolo gruppo, del gruppo istituzionale, interistituzionale e, infine, della comunità”. Questo è uno dei nodi della “riparazione”, intesa come possibilità di cambiamento e di trasformazione personale e collettiva, come un prendersi cura, come un superamento di traumi e ingiustizie sociali.

Queste parole sono prese a prestito dall’intervento di Anna Ponente, direttrice del Centro diaconale “La Noce” di Palermo, recentemente relatrice nell’ambito delle Giornate di studio sulla riparazione organizzate a Napoli, presso la Pontificia Facoltà teologica dell’Italia Meridionale, da Padre E. Jula, professore di Etica e di Mediazione dei conflitti. La relazione ha avuto come tema “Il campo emotivo e la relazione di transfert e controtransfert nella mediazione: un dialogo possibile?”. Ponente cita Madeleine e Willy Baranger, psicoanalisti franco-argentini, Melanie Klein psicoanalista austriaca naturalizzata britannica, e Jacqueline Morineau, ideatrice della mediazione umanistica. Un vero e proprio viaggio multidisciplinare nella risoluzione dei conflitti, ma non solo.

“Spostandoci da un’impostazione terapeutica e di cura individuale ad una più sociale – sostiene Ponente –, diviene possibile sviluppare un modello di città per affrontare le situazioni di deprivazione sociale, di povertà, di dispersione scolastica, di conflitti, di traumi”. Tutti gli attori coinvolti rappresentano la “comunità riparatoria”, la quale “aiuta l’altro a recuperare parti di sé perdute, danneggiate da traumi e da ingiustizie”.

Un altro elemento fondamentale del processo di riparazione riguarda la “capacità di preoccuparsi delle conseguenze o meglio degli effetti delle proprie emozioni nella relazione con gli altri”. E anche la “capacità di tollerare le ambivalenze, l’odio e l’amore, nonché di credere nel potere riparativo e di ricostruzione dei legami sociali e affettivi”.

 L’esperienza della riparazione ha enormi potenzialità, spiega Ponente, “poiché svincola l’individuo dal senso del danno irreparabile dando speranza alle generazioni successive, credendo fermamente nella possibilità di affrontare i segni lasciati nel mondo interno dalle esperienze di rottura relazionale, e con la convinzione e la fiducia che permane sempre il desiderio di instaurare rapporti all’interno dei quali si possa diventare destinatari di fiducia e stima da parte degli altri. Viviamo, tuttavia, in un tempo di profonde mutazioni, cambiamenti economici e sociali; una comunità che voglia connotarsi come riparativa e relazionale deve, quindi, raccogliere la sfida a contrastare la crisi dei legami sociali e promuovere il cambiamento.  Non possiamo trascurare il fatto che in questo momento storico continuano a morire tanti uomini, tante donne e tanti bambini. Di fronte a quanto è accaduto a Cutro [l’11 marzo, peraltro, la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) aderisce e partecipa alla manifestazione nazionale “Fermare la strage” ndr], non possiamo non soffermarci sulla responsabilità storica di trovarci di fronte nuovamente ad un trauma sociale massivo che potrebbe essere irreparabile. Viviamo, infatti, in un momento storico dove l’evento traumatico e catastrofico ha una valenza drammatica poiché determinato dall’attacco dell’uomo all’essere umano. L’uomo attacca il bisogno fondamentale che lo identifica in quanto tale, il bisogno di relazioni, anzi il desiderio delle relazioni come soddisfazione primaria del bisogno di sicurezza e di attaccamento verso l’altro e verso la vita. Nel trauma perpetrato da mano umana, ciò che è umano definisce anche l’inumano. La matrice umana di esperienze di devastazione quali le guerre, i genocidi, le torture politiche, gli abusi fisici e psichici, gli stermini, produce conseguenze sul singolo, sui gruppi, sulla società e sulla collettività. La violenza rimane impressa nella mente e nel corpo della persona e i suoi effetti influenzano non solo la generazione colpita, ma anche le successive”.

Il significato profondo e psichico che le persone attribuiscono al trauma, conclude Anna Ponente, “è uno degli elementi che possono decidere della gravità dell’incidenza del trauma sul singolo e sul gruppo, insieme al sostegno che la persona riceverà dalla comunità. Dobbiamo lottare contro questo processo di disumanizzazione e al contempo mettere in atto tutte le modalità riparative e di sostegno, del singolo e della comunità”.

Per leggere uno stralcio dell’intervento di Anna Ponente, clicca qui: Il campo emotivo e la relazione di transfert e controtransfert nella mediazione – di Anna Ponente.