Morire di immigrazione

Lampedusa, museo delle migrazioni “PortoM”, oggetti restituiti dal mare

Roma (NEV), 3 ottobre 2023 – Pubblichiamo l’intervento di Paolo Naso andato in onda su Rai Radio 1 nella trasmissione “Culto Evangelico” di domenica scorsa, alla vigilia del decimo anniversario del tragico naufragio di Lampedusa.

Paolo Naso è consulente per i rapporti istituzionali della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), in particolare del programma migranti e rifugiati Mediterranean Hope (MH).


3 ottobre 2013. Al mattino di quel giorno di dieci anni fa, appena al largo della costa di Lampedusa, affondava un barcone con a bordo 368 migranti. Non è stato il naufragio che ha prodotto più vittime eppure quel giorno, nella storia delle migrazioni così come nella memoria delle nostre coscienze, segnò un punto di svolta. A fare la differenza furono gli uomini e le donne che, preso atto della tragedia in atto, salirono sulle loro imbarcazioni e arrivando prima dei mezzi di soccorso ufficiali e istituzionali, riuscirono a salvare decine di persone, per lo più giovani ragazzi provenienti dall’Eritrea.

Negli anni quelle donne e quegli uomini hanno continuato a raccontare una verità scomoda e provocatoria: in mare si muore anche di immigrazione. Ce lo racconta Vito, che era in quella zona per pescare e sentì il grido acuto dei gabbiani che sembrarono avvertirlo di quello che stava succedendo; o Costantino, che ancora oggi pensa ai ragazzi che non è riuscito a salvare. E altri ancora che si chiedono colme mai quel barcone non sia stato tempestivamente rilevato e accompagnato in sicurezza al porto.

Tutte queste voci ci dicono che quello di dieci anni fa non fu un incidente del mare – uno tra i tanti che si sono registrati nella storia delle navigazioni – ma la conseguenza di leggi ingiuste che, ogni giorno, costringono migliaia di persone a sfidare ogni ostacolo pur di scappare da guerre e persecuzioni. Si calcola che in dieci anni, i morti di immigrazione nel Mediterraneo siano stati 30.000, una cifra enorme, metabolizzata soltanto con le immagini seriali di chi sbarca sul molo Favaloro dell’isola di Lampedusa: i sopravvissuti, malvisti e mal tollerati. Ma poi ci sono i sommersi, ignorati ne dimenticati.

«Farebbero meglio a non partire», dicono in molti comodamente seduti di fronte alla televisione. Ma nessuno o quasi ricorda loro che, soltanto negli ultimi tre anni, in Africa si sono registrati ben otto colpi di stato: due in Mali, due anche in Burkina Faso, uno in Sudan – paese di fatto attraversato da una guerra civile che prosegue da decenni. E poi in Guinea, in Niger e infine – quasi non ne abbiamo avuto notizia – in Gabon. I più fortunati scappano, semplicemente, dalla fame e da una povertà endemica che non dà spazio alla speranza. Otto colpi di stato sono altrettanti uragani politici che sconvolgono la vita di decine di milioni di africani, che dividono la popolazione e, non di rado, determinano dittature militari; un colpo di stato modifica assetti economici e sociali, produce un clima autoritario e antidemocratico che finisce per discriminare o perseguitare le minoranze politiche, etniche, linguistiche e religiose. Quando, con irresponsabile leggerezza, si dice “aiutamoli a casa loro” si dimentica che la “casa loro” sta bruciando e costringe la gente a fughe improvvisate e disperate. A quel punto, la morte in mare non è troppo diversa dalla morte per le torture in carcere, o per la fame o l’impossibilità di accedere a cure di base.

Dieci anni fa, i morti di Lampedusa scappavano esattamente da questi scenari, molti di loro dall’Eritrea, un paese in fiamme il cui governo, per mantenersi al potere, mantiene un esercito smisurato che costringe i giovani a estenuanti leve militari che durano fino a dieci anni.
Il 3 ottobre di quest’anno, a Lampedusa, si farà memoria di queste storie, si ripeterà – ancora una volta – che l’incidente di dieci anni fa non fu una casualità ma la conseguenza degli impossibili muri che si cercano di alzare tra la sponda nord e quella sud del Mediterraneo. Di nuovo, si chiederanno corridoi umanitari per garantire vie di accesso legale e sicuro per i richiedenti asilo.
Il 3 ottobre si farà anche silenzio. E non solo in omaggio alle vittime ma anche perché l’Italia e l’Europa si facciano un esame di coscienza e si chiedano che cosa stanno facendo – che cosa stiamo facendo – per evitare i morti di immigrazione.


Questa puntata della rubrica “Essere chiesa insieme” a cura di Paolo Naso è andata in onda domenica 1° ottobre durante il “Culto evangelico”, trasmissione di Rai Radio 1 a cura della Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Ascolta cliccando sul link qui in basso, dal minuto 18.20:

Culto Evangelico | Culto Evangelico del 01/10/2023 | Rai Radio 1 | RaiPlay Sound