Centenario Basaglia. Intervista a Peppe Dell’Acqua

L’11 marzo 2024 è il centenario dalla nascita del celebre psichiatra Franco Basaglia, che ispirò l’omonima Legge 180 per la chiusura dei manicomi

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Roma (NEV), 11 marzo 2024 – Cento anni fa a Venezia nasceva Franco Basaglia. Psichiatra e neurologo italiano, a lui è intitolata la Legge 180 del 1978 che sancì la chiusura dei manicomi. Questa legge rappresentò una vera e propria rivoluzione per le politiche di salute mentale nel nostro Paese. Fra le iniziative per l’anniversario dalla sua nascita, anche

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l’emissione del francobollo commemorativo alla presenza della figlia, la psicologa Alberta Basaglia.

Franco Basaglia è stato un punto di riferimento importante per la psichiatria del Novecento, grazie anche alle numerose collaborazioni, agli studi filosofici e al suo impegno professionale e intellettuale.

Ne parliamo con lo psichiatra Peppe Dell’Acqua. Già direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste, Dell’Acqua ha iniziato nel 1971 a lavorare con Franco Basaglia nell’ospedale psichiatrico capoluogo del Friuli Venezia Giulia, partecipando attivamente al cambiamento e, successivamente, alla chiusura del manicomio.

Secondo lei qual è lo stato di salute della legge Basaglia oggi?

La legge Basaglia in un certo senso ha realizzato tutto quello per cui era nata, ma avrebbe dovuto rappresentare un punto di inizio. L’obiettivo era quello di restituire diritto alle persone che vivono nell’esperienza di disturbo mentale. Con la legge Basaglia, quelle persone che prima dicevamo senza diritti e senza tutela oggi sono cittadini a tutti gli effetti.

Da quel momento in avanti, le regioni e tutti gli enti preposti avrebbero dovuto farsi motore di un cambiamento, anche culturale. Oggi occorre continuare a parlare della legge Basaglia, perché è stato fatto poco, in molti posti quasi niente. Certo, in molti altri è stato fatto bene. Pensiamo ai servizi di salute mentale organizzati per il diritto alla cura, ad esempio a Trieste, che da cinquant’anni è il punto di riferimento non solo per l’Italia ma anche altri paesi del mondo, con progetti che restituiscono ogni giorno dignità.

Una domanda un po’ provocatoria. Possiamo fidarci della psichiatria?

I servizi della psichiatria spesso sono scadenti e improntati su un modello vecchio. È un paradosso, se pensiamo alle risorse e alle competenze che abbiamo acquisito in cinquant’anni di lavoro. Stiamo parlando della capacità di tenere in piedi servizi territoriali cittadini rivolti a persone con disturbi mentali, sia nelle fasi acute che nel corso della loro vita. Queste persone potrebbero vivere molto, molto meglio di come vivono mediamente. Questo non accade, ed è questo l’obiettivo che dobbiamo avere. Con tutto quello che abbiamo fatto e possiamo fare per le persone con disturbo mentale, nel campo di tutti i diritti: da quello di cittadinanza, di famiglia, di casa, di lavoro. E dovrebbe valere anche per tutte le altre categorie che finiscono per essere svantaggiate.

È stata una grandissima impresa quella di togliere 100.000 persone dai manicomi e farle diventare cittadini. Prima non esistevano. Quando studiavo non si sapeva nemmeno dove fossero i manicomi, le persone erano portate via dallo sguardo, dalla nostra vista.

Parlarne ancora, evolvere ancora. Ecco cosa dovremmo fare. Certo, esiste la buona psichiatria, ma se smettiamo di parlarne ognuno finirà per fare le cose sue a modo suo.

E della politica sociosanitaria italiana oggi, possiamo fidarci? Cosa potrebbe fare di meglio e di più?

La politica potrebbe fare esattamente il contrario di quello che secondo me sta facendo. Il sistema sanitario nazionale, che è stato ovviamente una delle grandi conquiste dalla Riforma sanitaria, alla stessa Legge 180, ci parla di sanità uguale per tutti. Sulla carta, un sistema universalistico che pezzo dopo pezzo, regione dopo regione, viene smantellato.

Stiamo andando verso una confusa sanità privata, verso il deperimento della salute pubblica. La politica dovrebbe avere un risveglio rispetto a questo, opporsi, uscire dal silenzio, con quel vigore che è stato anche in passato molto importante. Poi, è normale che a livello locale si possano avere differenze di organizzazione delle aziende sanitarie.

Il senso della politica sta, inoltre, nell’essere presente, mettendo in campo strumenti per contrastare i luoghi comuni che non ci servono, dall’idea che il matto è pericoloso a quella che i servizi siano un costo, dimenticando che basterebbe utilizzare i fondi in modo appropriato, per evitare costi maggiori nel futuro.

I protestanti Giovanni Jervis e Letizia Comba hanno lavorato con Basaglia. Cosa ricorda di queste collaborazioni?

Io sono un po’ più giovane di loro, e ho conosciuto Jervis quando sono stato a Gorizia. Lo chiamavamo Gionni. Ricordo che ci furono molti cambiamenti fra gli anni ’60 e gli anni ’70. Lo incontrai in qualche conferenza, in qualche incontro. Quando Jervis andò via da Gorizia aveva maturato una posizione più critica, con l’idea che bisognasse lavorare da subito nel territorio. Forse sembrava una via più semplice e diretta, tuttavia oggi possiamo dire che era necessario prima mettere in moto il processo in modo più centralizzato, affinché gli ospedali psichiatrici smettessero di esistere, anche se poi gli esiti sono stati eterogenei. Jervis era una persona inquieta, che ha fatto scelte radicali, spostandosi a Reggio Emilia, a Roma, in Cina. Lo definirei un classico movimentista degli anni ’60.

[Ricordiamo che Jervis perse il padre Guglielmo (Willy) Jervis, ingegnere alla Olivetti di Ivrea, nell’agosto 1944, fucilato a Villar Pellice per la sua attività di partigiano azionista] fonte: Giovanni (Gionni) Jervis – Aspi – Archivio storico della psicologia italiana (unimib.it)


Curiosità

Nell’aprile ’78 Basaglia firmò, insieme a un centinaio di intellettuali, un appello per la vita di Aldo Moro. Tra i protestanti firmatari c’erano anche Jürgen Moltmann, Tullio Vinay e Giorgio Girardet.