L’etica protestante del lavoro? Oggi si chiama giustizia

Dal 7 al 9 aprile all’Università di Salerno, un convegno organizzato dal Dipartimenti di Scienze politiche e della comunicazione e dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia. Un editoriale di Paolo Naso.

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Roma (NEV), 8 aprile 2024 – di Paolo Naso – Di Calvino – Giovanni, il riformatore ginevrino – in Italia si sa molto poco  e in genere, nell’immaginario di chi sa collocarlo nel tempo e nella storia del cristianesimo, il suo pensiero si riconduce a un tema specifico: un’etica puritana, severa e rigorosa che si esprime, soprattutto, nella dedizione al lavoro. Molto di questa vulgata si deve alla mediazione di Max Weber, autore del fortunato saggio – forse più citato che letto –  Etica protestante e spirito del capitalismo. Ormai 120 anni fa quel volume diede forma sociologica al nesso tra un presupposto teologico – la grazia di Dio – e le sue conseguenze sul piano economico e sociale, a iniziare dall’operosità di chi scopriva che la vita cristiana si poteva esprimere anche nella dimensione intramondana del lavoro e delle relazioni economiche. Schematizzando, dall’oratorio al laboratorio.

Nonostante rivisitazioni e qualche revisionismo, questa tesi ha retto a lungo, almeno nella lunga fase del capitalismo produttivo, quello che, all’interno di sistemi di fabbrica, generava merci e strutturava le classi sociali. In quel contesto, l’etica protestante si esprimeva in una particolare attitudine che, grazie a una forza morale interiore, attraverso il lavoro riusciva a migliorare gli individui e a indurre un virtuoso processo di crescita economica dell’intera società. Questa classica interpretazione, di per sé corretta, sottovaluta però un elemento: quella “forza morale” che anima il calvinista operoso si esprime in un preciso concetto teologico: la vocazione. Il termine va inteso in una chiave che rimanda  alla vocazione che il Signore rivolge ai suoi figli e alle sue figlie. Con questo passaggio, come ben notava un altro sociologo (e teologo) vissuto tra ‘800 e ‘900, Ernst Troeltsch, il protestantesimo riconciliò la dimensione laica del lavoro con quella teocentrica della grazia: nel solco del pensiero della Riforma il dono divino della grazia sola fide, per sola fede, fa del lavoro mondano, il “normale campo di azione” in cui si esprime la gioia per la grazia ricevuta da Dio. In questa prospettiva il lavoro non è più una condanna, quindi, né la pena necessaria a espiare la colpa del peccato originale, ma lo spazio di libertà in cui vivere la fede cristiana e affermare la propria dignità di individui liberi. Fu una rivoluzione del pensiero e della fede così potente da innescare il processo economico che ben conosciamo e che è stato ben descritto, anche oltreoceano, da studiosi del calibro di Talcott Parsons e C. Wright Mills. Per fare un nome italiano, dobbiamo aggiungere Mario Miegge – quest’anno si ricordano i dieci anni dalla scomparsa di questo filosofo di fede protestante, a lungo docente all’Università di Ferrara – autore di un insuperato saggio intitolato “Vocazione e lavoro” (Claudiana 2010).

Guardando al lavoro di oggi, è doveroso chiedersi che cosa resti di questa tradizione e di questo modello e quale sia – se ne ha ancora una – la sua forza propulsiva sul piane delle idee e dei comportamenti individuali e collettivi. Se ne sta discutendo in questi giorni, in un convegno organizzato dall’Università di Salerno (Dipartimento di Scienze politiche e della comunicazione) e dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI) che ha luogo nel campus di Fisciano, dal 7 a oggi, 9 aprile. A confronto, ci saranno storici, teologi, sociologi che però anticipano già una risposta: l’etica protestante del lavoro, intessuta di rigore, responsabilità, impegno, creatività appartiene a una fase economica ormai definitivamente superata. Già la grande fabbrica fordista con il suo carattere di alienazione spersonalizzante aveva crepato quel modello, ma la progressiva dematerializzazione del lavoro (e della produzione) lo ha definitivamente sepolto. Se l’etica calvinista del lavoro intercettava un ascensore  sociale fortemente in salita, oggi qualsiasi etica del lavoro deve considerare la quota di sfruttamento, alienazione, distruzione di risorse connessa con i processi produttivi. In aggiunta, i dati e le previsioni mostrano un ascensore sociale fermo, se non in discesa libera, che riduce le speranze e le aspettative di chi cerca un lavoro per crescere socialmente. Fenomeni come il “lavoro povero”, quello dei giovani che rinunciano a cercare lavoro o di quelli che subiscono la precarietà di ogni occupazione, non costruiscono alcuna “etica” se non quella del rifiuto o della rassegnazione. Che non ha – non può avere – alcuna dimensione teologica.

L’etica del lavoro va insomma ripensata, e non solo in chiave teologica. Sappiamo bene che è esistita anche un’etica laica, centrata sull’idea di una produzione a beneficio delle masse, dell’orgoglio dell’innovazione, della solidarietà di classe. Ma anche questi concetti appartengono a un mondo ormai finito.

In questo campo, pare quasi che di fronte a noi restino solo problemi e sfide: quella della giustizia, della sostenibilità, del “senso” di quello che facciamo per vivere e per produrre i beni di cui, noi per primi, abbiamo bisogno. Non è il tempo di risposte facili e improvvisate, ancor meno in un tempo di decrescita. Non sappiamo se sia più o meno felice ma che ci pare  certamente iniqua perché la sottrazione di beni e consumo finisce per riguardare solo le classi più povere. Forse l’etica del lavoro del futuro – anche in chiave cristiana – deve partire da qui: dall’idea della giustizia: sociale, distributiva, ambientale.